di Angelica Stramazzi
Ogni campagna elettorale dovrebbe caratterizzarsi per l’emersione di determinati elementi a discapito di altri fattori; dovrebbe cioè essere in grado di evidenziare le reali necessità del Paese, proponendo a coloro che si accingono a recarsi alle urne delle soluzioni abbastanza convincenti tali da indirizzare il consenso su un certo partito piuttosto che verso un altro, premiando in tal modo quello schieramento che, alla fine della corsa, ha saputo meglio raccontare – oggi si direbbe narrare – la sua idea di Italia. Ma, come è noto, le campagne elettorali sono gestite per intero dai partiti; ed il personale che opera dietro la conduzione (e realizzazione) delle stesse è – altra anomalia italiana – lo stesso che si ritrova a dover lottare per garantirsi la rielezione in un sistema che – lo abbiamo ripetuto diverse volte in questa sede – premia la fedeltà mostrata nei confronti del capo (o dei capi) e non già il merito. Premesso quindi che ogni strategia o piano d’azione in vista dell’appuntamento elettorale nasce già con il vizio di forma – oltre che di sostanza – che si è poc’anzi ricordato, cosa dovrebbe entusiasmare il cittadino/elettore a tal punto da convincerlo ad accantonare l’ipotesi dell’astensionismo per recarsi invece alle urne, esercitando così il suo diritto/dovere di voto?
La formazione della coalizione centrista guidata da Mario Monti è stata ritenuta – e per certi versi a ragione – la principale novità di quest’avvio di campagna elettorale, non essendo emerse, nel periodo in cui a Palazzo Chigi ha operato un esecutivo di natura tecnica, delle alternative in grado di modificare il quadro esistente al momento dell’uscita di scena (?) di Silvio Berlusconi e della sua maggioranza. Tuttavia, dopo una prima fase di apparente dinamismo e di buoni propositi iniziali, il confronto tra le varie forze in campo si è nuovamente ridotto ad una contesa tra soggetti che tutto riescono a fare, tranne calarsi realmente in un presente fatto di persistenti difficoltà. Non è un caso che il vero vincitore di questo primo round elettorale sia (ancora) Silvio Berlusconi: parlando alla pancia del Paese, egli sta riuscendo, con i soliti mezzi a (sua) disposizione, a riconquistare gran parte del suo elettorato di riferimento, che sembra aver improvvisamente dimenticato i lunghi silenzi del Cavaliere, oltre che le sue assenze mediatiche. Ma per un uomo che conosce a menadito il funzionamento della macchina televisiva recuperare lo svantaggio iniziale non è stato poi tanto difficile; ed ora non ci resta che analizzare i responsi delle urne.
Sta di fatto che, allo stato attuale, il vento del cambiamento – serio e reale, non già propagandistico – stenta a levarsi e a soffiare in maniera vigorosa, a tal punto che non poche speranze vengono riposte in quelle personalità considerate estranee al mondo della politica intesa come professione, ma che quel mondo hanno cercato di analizzare e raccontare dall’esterno. Sono i (molti) giornalisti, magistrati, intellettuali che hanno deciso di impegnarsi in prima persona, abbandonando la posizione di terzietà che avevano fino a poco tempo fa ricoperto. Venuta meno la necessità di mantenersi neutrali, queste personalità sostengono ora i diversi schieramenti in campo, chi appoggiando il centrosinistra, chi la coalizione guidata da Monti, come nel caso del direttore del Tempo Mario Sechi.
Se non c’è nulla di strano nel volersi mettere a disposizione di un progetto politico, sospendendo per un certo periodo di tempo la pratica della propria professione, occorre chiedersi come e quanto potranno di fatto incidere nel mutamento reale delle condizioni del Paese quei tanti intellettuali che, abbracciata una causa politica, hanno indossato una divisa o una casacca chiaramente riferibile ad un partito. Su questo punto si potrebbe disquisire a lungo; e i moniti (oltre che gli ammonimenti) di gramsciana memoria ci ricordano quanto sia delicato – oltre che rischioso – il ruolo dell’intellettuale politicamente impegnato. Forse che l’essere giornalista escluda automaticamente la possibilità di divenire un uomo politico al pieno servizio delle istituzioni e del Paese? Niente affatto. Ma credere di poter gestire la cosa pubblica nello stesso modo in cui si analizzano, dall’esterno e – almeno in teoria – con un certo distacco le vicissitudini politiche, è non solo un’illusione, ma soprattutto una falsa credenza: un concetto astratto, oltre che un proposito destinato a rimanere tale. Nel momento in cui si sposa l’impegno attivo, ponendo sé stessi al servizio di una causa, giusta o sbagliata che sia, si diventa parte integrante di quel meccanismo che, in precedenza e sempre dall’esterno, si era contribuito ad analizzare, magari mettendone in evidenza le nefandezze, gli aspetti più bui e malcelati, oltre che le prassi poco virtuose cui i recenti scandali di mala gestione ci hanno abituato.
Se tutti i cittadini italiani, giornalisti compresi, possono scegliere di abbracciare l’impegno politico, candidandosi a sostegno di questo o quel leader di partito, la figura dell’intellettuale dovrebbe restare ancorata a dei saldi principi, riassumibili, in buona sostanza, nell’esigenza di preservare quella posizione di terzietà necessaria a chi desidera proporre indicazioni a coloro che ci governano. Nel momento in cui queste condizioni vengono meno, il carattere “disorganico” dell’elaborazione intellettuale cessa di esistere; e l’intellettuale stesso finisce per compromettersi con le logiche – e gli abusi di potere – proprie di quel sistema che, dall’esterno, aveva contribuito a scardinare.
Ecco perché, oltre ad una nuova classe dirigente, nel prossimo futuro si avrà bisogno di gente che continui a produrre analisi e a prospettare soluzioni ed alternative valide rispetto a quelle attualmente esistenti. Ma soprattutto non si potrà (più) fare a meno di personalità che sappiano mostrarci – realmente e senza pudore – gli errori della politica e le storture di un sistema che andrebbe cambiato in tutta fretta.