di Alia K. Nardini
Nel giorno di Martin Luther King, Jr., giurando sulla bibbia che fu di Abramo Lincoln, Barack Obama ha inaugurato la sua seconda presidenza. Alla Casa Bianca oggi siede un uomo più risoluto, meno disposto ai compromessi, ma pur sempre di un entusiasmo contagioso. Che crede in ciò che fa: anche le più semplici e conosciute citazioni – gli individui nati liberi e uguali, la tutela di vita, libertà e ricerca della felicità – assumono un valore assoluto e profondo, ma nello stesso tempo in grado di tendere la mano all’uomo comune (e sono tanti, centinaia di migliaia, ad affollare lo spazio di fronte al Campidoglio per ascoltarlo, con le lacrime agli occhi). Non è solo retorica: Obama è un grande comunicatore, ma è anche un Presidente in grado di stabilire un legame empatico con i suoi cittadini. E che, se può, riesce anche a lanciare qualche frecciatina agli avversari, togliendosi il proverbiale sasso dalla scarpa.
Ma andiamo per ordine. Il leitmotiv ricorrente è il concetto di diritto, legato a doppio filo con la nozione di uguaglianza: nel discorso di Obama si rimarca dunque la necessità di promuovere la parità per gli omosessuali “che hanno diritto ad essere come chiunque altro di fronte alla legge” (è la prima, storica menzione della parola “gay” in un discorso inaugurale); il rispetto per le donne, “le nostre mogli, le nostre madri, le nostre figlie, affinché guadagnino tanto quanto faticano”; la tolleranza verso gli immigrati, “per i quali l’America è la terra delle opportunità”. E, visto che, nella società liberale, ai diritti corrispondono doveri, Obama ricorda la necessità “di occuparsi dei più vulnerabili, proteggendoli dalle sfortune e dai disastri”; ridurre il deficit pubblico, per lasciare alle generazioni future un mondo migliore; e, sempre guardando al futuro, il dovere di tenere sotto controllo i mutamenti climatici e tutelare l’ambiente.
L’intera logica del discorso di Obama ridefinisce pertanto il concetto stesso di “diritto” in chiave liberale: non solo in accezione negativa, come tradizionalmente è sempre stato per i Repubblicani, dove il ruolo dello Stato è limitato alla tutela della sicurezza personale e della proprietà privata. Secondo la filosofia conservatrice infatti, in base ai capisaldi dell’esperimento statunitense, l’individuo ha diritto di rivendicare la non interferenza del governo negli affari individuali, e al massimo di far valere il rispetto costituzionalmente sancito contro ogni discriminazione basata su razza, genere o religione. Ora, Obama chiama in causa gli stessi ideali all’origine della nazione statunitense per argomentare una nozione “positiva” di diritto, più ampia, perché – come dichiara accoratamente il Presidente – “la storia ci insegna che le verità contenute nella Dichiarazione di Indipendenza potranno anche essere autoevidenti, ma non sono anche auto-attuanti”. In altre parole, i fondamenti dell’esperimento statunitense debbono essere tangibili nel quotidiano di ogni cittadino. Ed è compito dell’uomo agire affinché il sogno americano diventi realtà concreta per tutti.
Dunque Obama parla non solo di diritto alla sicurezza, personale e della nazione, ma di dignità. Nomina il diritto all’istruzione, ad un impiego, all’assistenza sanitaria. La tanto vituperata Obamacare trionfa pertanto in quanto cardine della filosofa politica del Presidente; e ci si può aspettare che il piano di regolamentazione del possesso di armi, una volta attuato, si sviluppi seguendo la stessa direzione. Il progetto di Obama si fonda su un governo certamente più invasivo e burocratico, centralizzato e omologante, come criticano i conservatori. Ma anche un governo che provvede in modo più comprensivo e attivo alla cura dei suoi cittadini, in modo che essi possano scegliere – a parità reale di condizioni – la vita che realmente vogliono vivere. Questo non può accadere se la ricchezza è nelle mani di pochi, mentre la maggioranza dei cittadini “a mala pena sopravvive”; se l’indigenza diffusa fa sì che una bambina povera non possa avere accesso alle stesse opportunità di ogni altro piccolo americano; se giovani volenterosi e lavoratori industriosi che già fanno parte della realtà produttiva degli Stati Uniti vengono espulsi, invece che regolarizzati; se i bambini rischiano la vita anche soltanto andando a scuola ogni giorno. Questo, ribadisce il Presidente, non può essere lo scenario che i Padri Fondatori avevano in mente nel dare forma alla grande nazione americana.
Nelle scorse elezioni, i cittadini hanno avuto la possibilità di scegliere. È stato Obama il vincitore, e non il ticket Repubblicano Romney/Ryan; per cui, il modello di uno Stato più attivo, più “europeo”, sembra essere ciò che gli americani realmente vogliono. Forse per questo manca dal discorso di Obama ogni menzione di collaborazione, ogni mano tesa verso i Repubblicani. Come constata amaramente John McCain, non si è udito nessun “lavorerò insieme all’opposizione”, al contrario del discorso dell’insediamento nel 2009.
Forte del proprio consenso, che è tornato a salire, Obama conclude con una stoccata: “non siamo una nazione che si approfitta”. È una chiara risposta al rischio palesato da Paul Ryan che l’America si trasformasse in una “nation of takers”. Il Presidente prosegue: “Mai come oggi crediamo nell’iniziativa individuale e nella libera impresa, nel duro lavoro e nella responsabilità del singolo. Non pensiamo che il governo centrale possa da solo curare i mali del nostro tempo. Ma i tempi cambiano, e così anche la nazione americana. A nuove sfide devono corrispondere scelte coraggiose, a cui il popolo deve far fronte unito”. Tra queste sfide, la politica estera, che occupa uno spazio relativamente contenuto nel discorso del Presidente. La sicurezza e la pace non richiedono “la guerra perenne”, e seppur l’America debba vigilare “su coloro che vogliono nuocere alla nostra nazione”, Obama precisa che l’America deve lottare per “tentare di appianare pacificamente le diversità, non perché viviamo nell’ingenuità, ma perché il dialogo è il più durevole mezzo per sconfiggere la paura e il sospetto”. Continua dunque la lotta per la democrazia e la libertà nel mondo, ma sempre nel nome della tolleranza, delle opportunità, della dignità e della giustizia. Solo così l’America “risponderà alla chiamata della storia, illuminando con la fiamma della libertà un futuro incerto”.
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