di Francesca Varasano
Lo scorso 23 gennaio, presso il quartier generale londinese del colosso Bloomberg, il primo ministro britannico David Cameron ha tenuto un atteso – e presto famoso – discorso sul futuro dei rapporti fra il Regno Unito e l’Unione Europea, prospettando una ridefinizione e una possibile consultazione popolare in proposito.
Le parole di Cameron hanno immediatamente suscitato reazioni in patria e nei consessi internazionali, riaprendo in modo plateale il dibattito mai sopito sulla vicinanza d’interessi inglesi ed europei.
“Abbiamo il carattere d’un’isola – indipendenti, franchi, appassionati nella difesa della nostra sovranità. Non ci è possibile cambiare questo sentire britannico come non ci è possibile prosciugare il canale della Manica”, ha sottolineato Cameron nel descrivere la distanza oggettiva e politica che separa Londra da Bruxelles. Per questo, il primo ministro ha proposto la rinegoziazione di alcuni aspetti della partecipazione del Regno Unito all’Unione Europea, esprimendosi a favore del mercato unico ma rifiutando il principio, posto dai Trattati di Roma, della determinazione a porre le fondamenta di un’unione sempre più stretta. In particolare, pur rinnovando con passione la propria fede europeista, il premier inglese ha proposto di riformulare i termini della cooperazione europea in materia di competitività, flessibilità dei trattati, ritorno di alcuni poteri dell’Unione nella sfera di competenza degli stati, criticando inoltre il ruolo della Commissione e il deficit democratico delle istituzioni. Cameron si è speso in difesa della valuta e dei mercati britannici, ribadendo come la gestione incauta dell’Eurozona danneggi quei paesi che non ne facciano parte pur essendo membri dell’Unione.
In caso di vittoria alle elezioni generali del 2015, il partito conservatore inglese imposterà in questi termini la rinegoziazione dello status di membro UE, che sarà seguita entro il 2017 da un referendum popolare sulla permanenza in Europa. Si tratterebbe del secondo referendum tenutosi in proposito in Gran Bretagna, dopo quello confermativo del 1975, a due anni dall’ingresso, in cui prevalse il 67% dei consensi.
Oltre a riportare alla ribalta la possibilità di nuovi allargamenti dell’Unione (prospettiva, come è noto, poco allettante per alcuni altri membri, e di certo invisa alla Francia), Cameron sembra aver rinnovato il discorso d’un’Europa a due o più velocità, in cui siano possibili diversi gradi d’integrazione.
Laurent Fabius, Ministero degli Esteri francese, non ha tardato nel ribattere che un’Europa à la carte non è disponibile. Le istituzioni europee si riflettono invece nelle dichiarazioni di Martin Schulz, presidente del Parlamento Europeo, che ha definito quello di Cameron un gioco pericoloso. Angela Merkel, forse il capo di stato europeo la cui reazione era più attesa, non ha chiuso la porta alle trattative ma ha ribadito che l’Unione Europea è frutto di un equo compromesso fra stati con interessi diversi.
L’animosità francese, alla luce dei trascorsi in ambito europeo sin dall’ingresso del Regno Unito, non stupisce; alle reazioni contrariate degli altri paesi membri ci sono poche eccezioni, fra cui Petr Necas, primo ministro ceco, che condivide gli auspici per un’Unione Europea più aperta e flessibile.
La politica estera ha certo ripercussioni – e, spesso, motivazioni – tanto più importanti sul piano interno.
Nick Clegg, vice primo ministro e leader dei Liberal Democratici, l’altro partito di maggioranza, s’è mostrato scettico sull’ipotesi di un referendum e ancor di più sulla sua tempistica: una consultazione così importante, prevista con così largo anticipo, si concretizzerebbe in una campagna logorante e dannosa per la crescita, gli investimenti, il mercato del lavoro. Anche il partito laburista, attraverso Ed Miliband, si è dichiarato contrario ad un referendum che ponga un aut aut sull’appartenenza all’Unione Europea. Nigel Farage, esponente del Partito Indipendentista britannico (UKIP), da sempre critico verso Bruxelles, ha rivendicato nel discorso di Cameron una vittoria per il proprio partito, cui spetterebbe il merito di aver portato l’argomento alla ribalta. In particolare, Farage appoggia senza riserve la possibilità di un referendum che finalmente ammetta la possibilità anche di un’uscita della Gran Bretagna dall’UE, fino a questo momento percepita come indiscutibile: “non davanti ai bambini!”, secondo le parole del politico UKIP.
Concretamente, in vista delle prossime elezioni, il discorso di Cameron potrebbe contribuire a dar nuova forma alla coalizione di conservatori e liberal democratici correntemente al governo; di certo dà voce all’ala radicale dei Tories e mette in difficoltà i laburisti, allettando al tempo stesso l’elettorato UKIP più moderato. Ad oggi, il partito conservatore gode del vantaggio d’essersi fatto unico tramite nel proscenio internazionale d’una certa sfiducia verso le istituzioni europee fortemente presente nella società britannica, nonchè di offrire la possibilità d’un referendum.
Presso un elettorato tradizionalmente euroscettico e in presenza d’una stampa spesso di sentimenti smaccatamente anti-europei, questo potrebbe tradursi in un vantaggio non indifferente. Il Daily Mail – una testata esemplare di questo orientamento – all’indomani del discorso di Cameron titolava a tutta pagina “Sì, signor presidente!” (appena a fianco dell’altra importante questione contemporanea: “Quale star dell’X-Factor ha svelato un segreto di seduzione agli ultimi Oscar della TV?”). Il Times ha definito il discorso di Cameron “i quaranta minuti migliori della sua presidenza”. In un’analisi più approfondita, il giornale ha concluso che Cameron è risultato piuttosto convincente nel suo europeismo, che un referendum avrebbe risultati affatto scontati ma gli effetti di un “no” – specie su economia e imprese – sono di difficile valutazione: “se questo discorso è piaciuto agli euroscettici, non l’hanno capito”.
Cinquantasei industriali ed esponenti del mondo finanziario inglese hanno firmato una lettera aperta a sostegno della possibilità d’un referendum, ma la reazione dell’economia è cauta, piuttosto che unanimemente positiva: John Longworth, direttore generale delle Camere di Commercio inglesi, ha espresso preoccupazione circa il possibile lungo protrarsi delle negoziazioni, potenzialmente nocivo alle imprese.
Un sondaggio di YouGov, agenzia online di ricerche di mercato, svolto pochi giorni prima dell’intervento del primo ministro, rilevava – forse contrariamente alla percezione diffusa – che la maggioranza dell’elettorato inglese è a favore della permanenza nell’Unione Europea (il 40% contro il 34%, mentre il resto non vota o non sa).
Al prezzo d’una polarizzazione e perfino di una possibile spaccatura del partito conservatore, attraverso la questione europea David Cameron ha messo in difficoltà tanto gli avversari che gli alleati politici, aprendo di fatto nuove ipotesi sullo scenario delle prossime elezioni. Incisivo, ha raccolto consensi fra gli euroscettici; equilibrato, il primo ministro non si è alienato l’elettorato europeista, che potrebbe vedere in un nuovo corso un’opportunità per la Gran Bretagna.
L’economia e la finanza, tuttavia, non sembrano aver sciolto le riserve soprattutto per via della tempistica d’una consultazione dal risultato non scontato. Un’abile e fruttuosa trattativa con l’Unione Europea potrebbe valere una nuova maggioranza a Westminster nel 2015 e, in ultima analisi, un rinnovato slancio europeista oltre Manica.
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