di Marta Regalia

Le «parlamentarie» del MoVimento 5 stelle hanno indubbiamente rappresentato l’unico elemento di innovazione in un panorama politico desolante e, stando a quanto dicono i maligni, costretto il Partito Democratico all’inseguimento. Novità, certo, ma senza sorprese. A liste chiuse, infatti, il partito di Grillo ha dimostrato di saper religiosamente rispettare le regole che il leader del M5S ha imposto ai suoi, senza deroghe, deleghe, sovvertimenti, ripensamenti ed eccezioni dell’ultimo minuto.

Vivido strumento di democrazia interna, le primarie hanno dato agli iscritti al M5S la possibilità di formare le liste ed esprimere quelle preferenze che non sono ammesse nell’attuale sistema a liste bloccate. La democraticità dello strumento ha, tuttavia, subito delle pesanti mutilazioni causate da criteri di candidabilità indubbiamente troppo restrittivi. Se, da un lato, è vero che il M5S ha bisogno di proteggersi dagli innumerevoli bandwagoner, dall’altro, è altrettanto vero che, se vorrà raggiungere il proprio obiettivo primario, cioè la democrazia diretta su scala nazionale, dovrà necessariamente aprirsi e correre i rischi che la democrazia comporta. I criteri di candidabilità sono, infatti, stati fissati in maniera alquanto stringente: oltre ai requisiti canonici, cioè essere incensurati, non essere iscritti a partiti politici, non aver svolto in passato due mandati elettivi, essere residenti nella circoscrizione in cui si è candidati e non ricoprire cariche elettive, occorreva appartenere all’elenco degli iscritti al M5S alla data del 30 settembre 2012, avere certificato la propria identità entro il 4 novembre e, soprattutto, essere già stati candidati nelle liste del M5S in precedenti tornate elettorali senza risultare eletti. Tuttavia, tali criteri si sono rivelati oltremodo restrittivi, al punto da costringere il leader del M5S, vista l’impossibilità di avere un numero sufficiente di candidati nelle regioni dove il M5S si era presentato in nessuna o in pochissime elezioni amministrative (Basilicata, Calabria, Molise, Trentino Alto Adige e Umbria), ad allargare le maglie, permettendo cioè di candidarsi a tutti gli iscritti certificati entro il 31 dicembre 2011, senza obbligo di precedenti candidature. I candidati hanno avuto la possibilità di comporre un proprio profilo digitale comprendente una fotografia, una breve presentazione (CV e dichiarazione d’intenti) ed un video. Non tutti i candidati hanno però fornito in tempo utile questi strumenti di valutazione; di alcuni risultava sconosciuta persino l’occupazione.

Anche dal lato del selettorato, mentre il PD discuteva di regole (ed eccezioni) per l’accesso al voto al secondo turno, Grillo ha optato per primarie rigidamente chiuse: il selettorato era costituito infatti da tutti gli iscritti certificati alla data del 30 settembre 2012. Ogni selettore aveva a disposizione fino a tre preferenze da assegnare, tramite una procedura online, ai candidati della propria circoscrizione elettorale. Le votazione per i candidati alla Camera ed al Senato sono avvenute in contemporanea, con i candidati presenti su un’unica lista e senza distinguere tra chi si sarebbe candidato in una ramo del parlamento e chi nell’altro.

Le regole per la formazione delle liste risultavano essere piuttosto macchinose: in breve, i più votati di età superiore ai 40 anni sarebbero andati a formare le liste per il Senato, i più giovani quelle per la Camera. Per il Senato, però, la regola prevedeva una lista composta dal minimo di candidati richiesti dalle legge (un terzo dei seggi disponibili, arrotondato all’unità superiore) più sei candidati. Si tratta di criteri di cui si fatica a comprendere la ratio. Infatti, per le circoscrizioni più piccole, 1/3+6 corrisponde alla lista completa delle candidature (o addirittura oltre), mentre per le più grandi e, in particolare, per quelle nelle quali le circoscrizioni per Camera e Senato non corrispondono, tale regola non risulta esaustiva per determinare come vada a formarsi la lista senatoriale. Non sono stati quindi seguiti alla lettera i criteri sopra esposti, ma sono state utilizzate regole non previste per quei casi che non avrebbero trovato altrimenti una valida soluzione. Prendiamo come esempio la Lombardia, la regione con la situazione più complicata. Qui, nel formare la lista dei candidati per il Senato, dovendo attingere i candidati dalle tre circoscrizioni della Camera, il solo criterio dei più votati con più di 40 anni avrebbe favorito in modo esagerato i candidati della circoscrizione Lombardia 1 che, comprendendo la provincia di Milano, avevano ottenuto molti più voti; per questo motivo la lista è stata determinata, in sequenza, dal candidato più votato di Lombardia 1, al secondo posto dal più votato di Lombardia 2, al terzo dal più votato di Lombardia 3, poi dal secondo più votato di Lombardia 1 e così via. Inoltre, la regola che recitava: «saranno inseriti nelle liste per il Senato fino a colmare il numero minimo per lista più sei» avrebbe portato ad una lista di soli 23 candidati; ciò però causerebbe parecchi problemi nel caso il M5S risultasse il primo partito della regione: in tal caso, infatti, avrebbe diritto a 27 senatori; per questo motivo la lista comprende non 23 bensì 28 candidati.

Al termine delle votazioni ogni selettore ha potuto consultare la classifica in ordine di voto con il numero di preferenze ottenute da ciascun candidato, ma le classifiche di tutte le circoscrizioni, pubblicamente consultabili, risultavano inspiegabilmente – soprattutto per un partito che fa della trasparenza la propria bandiera – prive del numero di preferenze, riducendosi ad un elenco ordinato dei candidati. I dati ufficiali delle «parlamentarie», resi noti dopo più di due settimane dal voto, ci dicono che gli iscritti al M5S sono 255.339, di questi però solo 31.612, cioè il 12%, appartenevano al selettorato. Tra i possibili elettori hanno effettivamente votato 20.252, il 64% del selettorato, cioè l’8% degli iscritti al M5S. Gli elettori hanno espresso 57.272 preferenze, pari al 94% di quelle a loro disposizione (mediamente 2,83 preferenze per ogni votante).

Ma veniamo ora a quel che più ci preme: gli esiti. Chi porterà in Parlamento il M5S? Le «parlamentarie» hanno davvero fatto la differenza? Pare proprio di sì. Vediamo i dati. I candidati alle parlamentarie in totale erano 1486, 1296 uomini e 189 donne a fronte dei 945 posti disponibili nelle liste, che, con i criteri di formazione delle liste al Senato, scendono a circa 850. Malgrado una sproporzione enorme tra i candidati di sesso maschile e di sesso femminile (87-13%), il selettorato ha premiato in modo significativo sia le candidature femminili che quelle dei giovani. Pur essendo infatti un’esigua minoranza dei candidati, le donne hanno conquistato il 55% dei primi posti ed il 25% dei posti in lista. Le donne risultano poi essere, nella maggior parte delle circoscrizioni, in cima alle liste, facendo prevedere, nel caso di un buon risultato elettorale (ma non di vittoria), una percentuale di Deputate e Senatrici ancora più favorevole, comunque vicina alla parità con i colleghi di sesso maschile. Se, invece, dovesse scattare il premio di maggioranza, allora il rapporto uomini/donne sarebbe nettamente meno favorevole, avvicinandosi probabilmente ad un 70-30% a favore del sesso maschile. Lo stesso tipo di selezione è avvenuta, anche se in modo meno marcato, per i candidati più giovani, tra quelli di sesso maschile, che si trovano con più facilità nella parte alta delle liste nella maggior parte delle circoscrizioni.

 

Commento (1)

  • Aristide
    Aristide
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    Ottimo e interessante articolo, finalmente si vedono analisi concrete su dati e fatti precisi.

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