di Danilo Breschi
Ancora una volta il cinema americano riesce a raccontare la propria storia politica innalzandola sino alle vette dell’epica. Stavolta è merito di Steven Spielberg, come di consueto un pizzico più retorico di uno Scorsese, regista solitamente più disincantato, o di un Eastwood, tradizionalmente più tragico. Parlo ovviamente di “Lincoln”, ora nelle sale italiane, e penso a “Gangs of New York” e a “Gran Torino”, altri due film da cui emerge il senso dell’unione americana, di cosa sia l’ethos repubblicano, la supremazia di uno Stato costituzionale, in cui la carta fondamentale è la legge suprema che certifica e rende inalienabile e imperituro lo status di cittadino, ovvero sovrano indiscusso di sé e della propria “ricerca della felicità”.
C’è poco da fare, per gli americani da lì si parte e lì si torna ogni volta che una crisi grave minaccia il senso dell’essere statunitense: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”. E non solo, ma anche “che allo scopo di garantire questi diritti sono istituiti fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati…”. E via così, col vento della libertà e dell’uguaglianza, in nome del popolo sovrano. Questa la Dichiarazione di indipendenza americana proclamata il 4 luglio 1776.
Quando le libere istituzioni sono proclamate così solennemente e create nel crogiuolo di una guerra di liberazione, la prima guerra anticoloniale della storia moderna, quale in effetti fu l’indipendenza delle colonie nordamericane dalla madrepatria inglese, allora esse costituiscono un’irreversibile apertura alla democrazia. Prima o poi ci si arriva. Ed è per varcare definitivamente quella soglia, che dalla libertà porta all’eguaglianza nella libertà, che lavorò un uomo come Abraham Lincoln. Il film di Spielberg si concentra sugli ultimi mesi di vita del sedicesimo presidente americano e, soprattutto, sulla travagliata genesi del XIII emendamento alla Costituzione approvato dalla Camera nel gennaio del 1865 (il Senato lo aveva già fatto nell’aprile precedente) e che abolì ufficialmente la schiavitù in tutti gli Stati Uniti d’America.
Celebri alcune sentenze del presidente Lincoln, tra cui quella che definisce la democrazia “il governo del popolo, dal popolo, per il popolo”, come disse nel discorso per l’inaugurazione del Cimitero nazionale militare a Gettysburg, il 19 novembre del 1863. E bello è anche il ragionamento attribuito dal film al presidente, il quale, conversando con un giovane telegrafista, laureato in ingegneria, rievoca il primo assioma di Euclide per cui “cose uguali a una stessa cosa sono uguali fra di loro”, sottintendendo quel meccanismo infallibile, travolgente, che da Jefferson, il quale si vide cancellato dalla Dichiarazione del 1776 il riferimento allo schiavismo, conduce a Lincoln e sfocia in Martin Luther King: se siamo tutti figli di Dio, del Creatore nel quale crediamo, allora siamo anche fratelli nati dallo stesso Padre e, come tali, uguali tra noi tutti. E, dunque, se bianchi e neri sono uguali alla razza umana, allora devono necessariamente essere uguali anche tra di loro.
Aggiunge Lincoln, interpretato da uno strepitoso Daniel Day-Lewis, ieratico e lapidario al punto giusto: “è una regola matematica. È vera perché è valida e funziona. Da sempre e per sempre. Nel suo libro Euclide dice che è “evidente in sé”. Un trattato di meccanica [qui è un errore dello sceneggiatore Kushner: si tratta di matematica, in realtà] vecchio di 2000 anni. È una verità auto-evidente…”. Il sedicesimo presidente americano aveva in effetti letto gli “Elementi” di Euclide e coltivato da autodidatta una passione per la matematica, e usò spesso nei suoi discorsi pubblici esempi tratti dai principi della geometria euclidea. Razionalismo e Bibbia, citata frequentemente in pubblico da un uomo, Lincoln, che pare da giovane fosse stato piuttosto uno scettico e che anche in età adulta non aderì mai ad una chiesa. Si narra, e il film riporta l’aneddoto, che la mattina dello stesso giorno in cui fu assassinato Lincoln avesse espresso alla moglie il desiderio di far visita in Terra Santa.
Errore su Euclide a parte, è altrettanto evidente la finalità politica della creatività dello sceneggiatore Kushner, il quale vuole semplicemente mettere in circolo (virtuoso) Jefferson con Lincoln, riannodando i fili tra i Padri Fondatori e un abolizionismo che era loro sconosciuto (o meglio, rifiutato). Ma qui non c’è forzatura, perché già nel luglio 1860, da candidato alla presidenza, Lincoln ebbe a dire: “Dobbiamo restaurare la promessa di nascita della Repubblica; dobbiamo riaffermare la Dichiarazione d’Indipendenza; dobbiamo rendere valido sia nella sostanza che nella forma l’augurio di Madison che “la parola schiavo non dovrebbe apparire nella Costituzione”. […] Dobbiamo fare di questa una terra di libertà di fatto come lo è di nome”. Lo stesso ragionamento farà, creativo e politico insieme, il reverendo Martin Luther King. Perché ogni premessa solenne è promessa da mantenere, prima o poi. Le conseguenze di certe premesse sono ferree come la logica matematica.
Sceneggiatore e regista operano forse una torsione lievemente attualizzante del pensiero del presidente americano, e sin dal prologo del film si intuisce come dietro vi sia anche il riferimento all’elezione nel 2008 del primo presidente di colore nella storia degli Stati Uniti d’America. Ma è proprio guardando il film e ripercorrendo le vicende che portarono alla guerra civile americana e all’introduzione del XIII emendamento che si può cogliere a pieno, da europei, quanto sia stata epocale per gli USA l’elezione di Barack Obama. E come la sua rielezione sia stata la conferma che non di un episodio si è trattato, ma di un convinto e irreversibile ulteriore compimento delle promesse contenute nella Dichiarazione del 1776.
Le posizioni di Lincoln sul fenomeno della schiavitù non erano probabilmente quelle odierne, anche se regista e sceneggiatore si limitano a suggerire che la grandezza di quel presidente fu soprattutto nel piegare ogni mezzo, guerra e corruzione comprese, per il fine – e bene – supremo dell’abolizione della schiavitù. Un leader idealista e realista al tempo stesso, che seppe dosare il pugno duro e le carezze della sua oratoria nei confronti di un Congresso a metà del guado tra conservazione e progresso.
La natura dell’antischiavismo di Lincoln è a tutt’oggi oggetto di accese controversie nella storiografia e nel dibattito pubblico americani. Non v’è dubbio che egli la sostenne con forza e convinzione ferree e inamovibili, e su questo punto insiste il film. Questo mostra come si debba lottare, con quale tenacia e forza d’animo, per gli ideali che si ritengono buoni e giusti, tali da far progredire le istituzioni del proprio Paese verso quella piena coerenza rispetto alle premesse enunciate nel fatidico momento costituente, fondativo dell’identità di una nazione.
Spielberg, con grande abilità registica, e Tony Kushner, con altrettanto grande sapienza sceneggiatrice, lasciano solo intuire in tralice, e solo a chi conosca bene la storia americana, che la posizione di Lincoln non è probabilmente quella di un sostenitore dell’uguaglianza naturale, come fu invece il personaggio interpretato magistralmente da Tommy Lee Jones, ovvero il deputato Thaddeus Stevens, che fu effettivamente il leader della fazione radicale del Partito Repubblicano, lo stesso di Lincoln. Tra parentesi, notevole è la somiglianza fisica di Lee Jones con l’originale, un fiero oppositore della schiavitù sulla base di una convinzione giusnaturalistica integrale che riconosceva la perfetta uguaglianza razziale. Gli storici ci confermano altresì che Stevens ebbe molto probabilmente una lunghissima relazione con una donna di sangue misto, figlia di padre irlandese e madre africana. E anche in questo il film è veridico.
Eloquente, e coerente con la sceneggiatura del film, quanto Lincoln scrisse in una lettera a Horace Greeley il 22 agosto 1862, un mese esatto prima del Proclama di Emancipazione: “Il mio obiettivo supremo in questa battaglia è di salvare l’Unione, e non se porre fine o salvare la schiavitù. Se potessi salvare l’Unione senza liberare nessuno schiavo, io lo farei; e se potessi salvarla liberando tutti gli schiavi, io lo farei; e se potessi salvarla liberando alcuni e lasciandone altri soli, io lo farei anche in questo caso. Quello che faccio al riguardo della schiavitù e della razza di colore, lo faccio perché credo che aiuti a salvare l’Unione; e ciò che evito di fare, lo evito perché non credo possa aiutare a salvare l’Unione” . Un perfetto esempio, ancora, di idealismo travestito da realismo. Questa la chiave di lettura proposta da Kushner e Spielberg.
Hollywood conferma di essere la vera arma “atomica”, segreta ma non troppo, assolutamente letale, in mano agli Stati Uniti d’America in disperata ricerca di conservazione del loro status di prima potenza mondiale, di impero che governa il sistema delle relazioni internazionali e ne garantisce la pace. Se c’è una risorsa strategica fondamentale che manca ancora alla potentissima Cina è proprio quella fabbrica mitopoietica appollaiata sulle colline di Los Angeles. La capacità di condizionare, se non forgiare direttamente, l’immaginario di centinaia e centinaia di milioni di persone in tutte le parti del globo. Non a caso la censura cinese è così attiva e occhiuta sulla cinematografia di provenienza USA, che però, al tempo stesso, non può fare a meno d’importare. E d’altro canto, segnale non proprio rassicurante, Hollywood e il governo americano accettano di buon grado l’esportazione di versioni censurate per sfondare in un mercato appetitoso quale è quello cinese, di oltre un miliardo di potenziali fruitori e consumatori.
Ma tant’è: ciò che qui conta ribadire è che, ancora una volta, gli americani dimostrano, con l’industria cinematografica e attori strepitosi, di volere l’epica e di sapere come evocarla, narrarla, comunicarla. Noi italiani, ed europei tutti, dovremmo capire quanto abbiamo perso recidendo i legami con le nostre antiche radici greche. È forse emblematica e sintomatica la sorte che sta toccando oggi alla Grecia incatenata dai dettami di Bruxelles. Come non capire l’importanza politica dell’epica? Non capire quanto la comunità di cittadini liberi, cioè critici e responsabili, di cui parla anche l’ultimo aureo libretto di Roberto Vivarelli (“Italia 1861”, il Mulino), si nutra di epica?
Si torni a raccontare ai ragazzi delle scuole medie le pagine in cui Omero narra di come Ettore andò incontro alla morte certa, l’ultimo saluto alla moglie e al figlio, e come suo padre, il re Priamo, si recò dal superbo, iroso e coriaceo Achille e con lacrime umane, umilmente umane, seppe commuoverlo e poté così dare degna sepoltura all’eroico figlio morto in duello. È anche di eroi, soprattutto di piccoli grandi controversi e quotidiani eroi della democrazia repubblicana, che ci parla sovente il cinema americano. C’è bisogno anche di quelli, specie in tempi di crisi. Eroismo come esempio da trasmettere in parole ed opere, come assunzione di responsabilità, dell’immenso fardello del destino, e credere che sia sempre e comunque un destino di bene a chiamarti, perché destino è l’altro nome di Dio. Questo, e molto altro ancora, c’è nel film di Spielberg, come in molti altri sfornati ieri ed oggi nei dintorni di Hollywood. Adesso attendiamo un prossimo film di analoga forza sulla vita e l’opera di Martin Luther King.
Commenti (3)
pantera74
Carissimo prof. Breschi, sono d’accordissmo con lei quando afferma che “Hollywood conferma di essere la vera arma “atomica”, segreta ma non troppo, assolutamente letale” degli stati uniti d’ america ( volutamente scritti in minuscolo ) . Nel film si dice che Lincoln era grande maestro del 32′ grado della massoneria?. Lo sanno i Suoi lettori cosa fa la massoneria? Ben venga l’epica omerica solo se mezzo per esaltare le radici democratiche che affondano nell’Atene di Tucidide. Se invece l’epica diventa un mezzo per un imperialismo che promuove crimini contro l’umanita’, allora facciamone volentieri a meno.
Un caro saluto, P.
Nebula88
@pantera74. Perché che cosa fa la massoneria?
Da quello che so per passione, siamo quello che siamo anche grazie alla Massoneria,l’America stessa deve moltissimo alla Massoneria cosi come credo moltissime altre nazioni.
Per cui ripeto la mia domanda, che cosa fa la Massoneria(e non “la massoneria”, cosa che è nata solamente dopo)?
pantera74
Ti rispondo riportando letteralmente cio’ che scrive uno dei massimi esperti della Massoneria:
Jim Shaw, un ex massone del 33° grado, svela l’intero inganno nel suo libro The Deadly Deception,’ dove conferma quanto ho appena descritto. Egli spiega come la massoneria si basi su una struttura di piramidi a compartimenti stagni. Solo alcuni raggiungono il vertice dei 33 gradi dei Rito Scozzese o dei 10 gradi del Rito di York e anche allora non conoscono i veri segreti. Shaw dice di essersi stupito quando un collega massone del 33° grado gli rivelò che sarebbe stato promosso a un livello più alto” e uscì dal tempio da un’altra porta.’ Una piramide più grande comprende tutte le maggiori società segrete fino a fonderle in un’unica socicietà segreta. Questa vasta rete di società segrete conta milioni di adepti sparsi in tutto il mondo che pensano di conoscere la natura dell’organizzazione di cui fanno parte, ma, in realtà, solo pochi hanno idea di ciò che realmente succeda e di chi comandi. Alberi Pike, che morì nel 1891, fu uno degli esponenti più in vista del mondo massonico. Tra i suoi titoli figuravano quelli di Sovrano Gran Comandante del Consiglio Supremo del 33° grado e di Supremo Pontefice della massoneria universale. Nel suo libro Morals and Dogma, scritto per massoni di alto grado, egli svela come vengano sviati i gradi inferiori:
«I Gradi Blu non sono che la corte esterna o il portico del Tempio. Parte dei simboli vengono mostrati lì all’iniziato, che viene però intenzionalmente sviato confalse interpretazioni. Lo scopo non è quello di farglieli comprendere, ma di fargli credere di averli compresi. Le loro vere implicazioni sono riservate agli Adepti, i Principi della Massoneria».
Proprio così. Jim Shaw dice che esistono due tipi di massone. Uno si limita ad assistere agli incontri e non compie alcuno sforzo per comprendere i rituali. L’altro agisce materialmente, attenendosi al rituale, e memorizza o legge le parole senza coglierne il vero significato. Questo è vero, ma io ne aggiungerei un terzo tipo: la ristretta minoranza che sa chi controlla veramente la massoneria e qual è lo scopo ultimo di quei rituali e di quelle iniziazioni. Shaw conferma anche, sulla base della propria esperienza, che i massoni ricorrono alla manipolazione per collocare i propri adepti nelle posizioni che desiderano. Il capufficio di Shaw, un compagno massone, gli consigliò un giorno di candidarsi per un ruolo particolare. Shaw pensò di non avere le qualifiche necessarie per quel posto e che non sarebbe riuscito a superare l’esame.’ Ma, per via delle sollecitazioni del suo capo massone, fece domanda ugualmente. Quando si presentò all’esame rimase stupito nel vedere che solo altre due persone aspiravano ad un posto che egli credeva sarebbe stato molto conteso. Quando girò il foglio della prova, vide che le domande erano facilissime e la completò velocemente. Tuttavia, i suoi due avversari erano chiaramente in difficoltà e non riuscirono a terminare la prova nel tempo assegnato. Shaw ebbe quel posto. Perché? Perché a lui fu dato un testo d’esame diverso da quello degli altri due.
Quando abbandonò la massoneria dopo averne svelato gli intrighi, accadde qualcosa di diametralmente opposto. Allora i suoi capi divennero davvero poco disponibili, per non dire di peggio. Questo è solo un picco~ lo esempio di come gli Illuminati e la loro rete di società segrete facciano in modo che i loro uomini vadano a ricoprire i posti che contano. t davvero stupefacente come siano poche le persone che è necessario controllare al fine di imporre i propri piani all’intero sistema, a patto che queste persone (a) ricoprano ruoli chiave tra chi prende le decisioni e (b) abbiano il potere di nominare quelli che occupano le posizioni di potere al di sotto della loro. Un esempio: voi controllate il capo della polizia che decide le strategie da seguire e può nominare i capi dei vari dipartimenti che dipendono da lui. Egli introdurrà le linee guida degli Illuminati e sceglierà i superiori dei suoi sottoposti tra gli iniziati delle società segrete. Costoro, a loro volta, potranno nominare le persone all’interno dei loro dipartimenti, scegliendole ancora una volta tra gli iniziati di società segrete. E così via. Una volta che si ha il controllo di chi sta al vertice di ogni organizzazione, ecco che la piramide viene costruita a sua immagine, o meglio a immagine degli Illuminati. I governi sono strutturati allo stesso modo, così come le organizzazioni di “sicurezza” quali l’FBI, la CIA, i servizi segreti britannici e chi controlla il Pentagono. Si tratta di tante piramidi a compartimenti stagni, ma esiste anche una piramide che le comprende tutte e può quindi coordinare un piano d’azione comune, esattamente come è accaduto l’ 11 settembre.