di Aresh Vedaee

Per “dibattito democratico” possiamo intendere in senso lato l’insieme di libero scambio di informazioni, secondo la molteplicità di canali e format cui ci ha abituato la società dei mass media, e di molteplici occasioni di dialogo che contribuiscono a formare la così detta “opinione pubblica”. Il fine del dibattito democratico non è semplicemente quello di informare più o meno neutralmente su fatti bensì anche quello di promuovere il consenso collettivo, per favorire decisioni di comune accordo, in contesti istituzionali o meno. Infatti in mancanza di una convergenza di opinioni politiche tendenzialmente conflittuali (soprattutto in tempi di di crisi), si rischia lo stallo, ovvero quella situazione in cui i soggetti politici non intendono cooperare per non sacrificare i propri interessi di parte. Poi anche ammesso che vi sia una maggioranza, ci sarà sempre una minoranza a fare da opposizione, che a ragione o a torto si proporrà di rinegoziare le proposte della maggioranza sui punti di divergenza. Quindi anche in questo caso l’obiettivo del dibattito resta sempre quello della massimizzazione del consenso perché è questa a garantire la massima efficacia dell’azione politica.

Per quanto la promozione e tutela del dibattito democratico trovino fondamento sia nella Costituzione all’art.21, che nei contesti scolastici e istituzionali preposti alla diffusione dell’educazione civica, dove costante è l’appello alla moderazione e all’accordo delle parti, quanto disorientamento e frustrazione il dibattito politico possa ingenerare nei cittadini è sotto gli occhi di tutti: basti pensare alle ultime vicende della politica italiana, quando, a seguito della crisi dei debiti sovrani europei, l’inattuazione di riforme strutturali o congiunturali ritenute ormai improrogabili hanno richiesto l’intervento di un nuovo governo super partes, quello di Monti appunto, ispirando così l’equazione semplicistica tra “governo tecnico” e “governo impopolare”, come se un governo democraticamente eletto non avesse per costituzione i mezzi “tecnici” per imporre leggi impopolari.

In ogni caso piuttosto che andare a caccia di responsabili e complotti, credo sia opportuno osservare la natura del dibattito politico per come viene di fatto vissuto dai cittadini in regime democratico, per cogliervi già delle tendenze velleitarie. Sulla questione getta qualche luce l’Apologia di Socrate, in cui Platone narra della condanna a morte del suo maestro Socrate da parte di un tribunale popolare nella Atene democratica del 399 a.C.

Senza entrare nei dettagli, quello che emerge dalla ricostruzione di Platone è l’immagine di un intellettuale scomodo, animato da un’autentica passione civica e pedagogica, e in profondo antagonismo con i sofisti ovvero quella classe di intellettuali di professione e maestri dell’arte oratoria, che presero a proliferare in età periclea. La divergenza sostanziale risiedeva principalmente nel metodo con cui sofisti e Socrate affrontavano il dibattito pubblico. I primi procedevano per macrologie, cioè secondo monologhi da comizio che strumentalizzavano demagogicamente l’emotività e alimentavano la faziosità del pubblico. Mentre Socrate procedeva per brachilogie: cioè attraverso un confronto dialogico serrato che, testando la consistenza logica ed esplicativa delle conoscenze nei termini in cui erano formulate, finiva per verificare l’inadeguatezza delle nozioni politiche del senso comune e l’insufficienza di una adesione puramente emotiva alle questioni politiche. Da qui le inimicizie che Socrate si attirava.

A giustificare tale approccio vi era il seguente assunto: se il fine delle decisioni politiche è il bene comune, comunque lo si intenda, e se in una democrazia a ragionare e decidere del bene comune – cioè a doverne fornire una definizione valida, a trarne le dovute implicazioni, ad applicarla correttamente ai casi concreti, agendo poi di conseguenza – è il popolo, comunque lo si intenda, allora è compito di ogni educatore insegnare al popolo a farlo in modo efficace, stimolandone lo spirito critico non verso le altrui nozioni, ma verso le proprie.

Ora la condanna subita da Socrate, per incomprensione o malignità dei concittadini, doveva aver spinto Platone a riconoscere l’impraticabilità della lezione del maestro nel contesto democratico, ma poi a riprenderla in modo ancora più radicale e ambizioso, rovesciandone l’assunto di partenza: invece che presupporre l’attribuzione di potere decisionale ad un dato soggetto politico (il popolo, in democrazia) impegnandosi successivamente ad educarlo affinché ragioni efficacemente per il bene comune, bisogna piuttosto fare il contrario, ovvero imporre un modello di stato che implementi per costituzione un programma pedagogico tale da garantire che solo coloro che abbiano effettivamente appreso a ragionare correttamente, anzi “scientificamente”, per il bene comune, possano poi detenere il potere decisionale. Si tratterebbe insomma di una sorta di governo tecnico ante litteram.

A questo punto, quale indicazione potremmo trarre da questi accenni storico-filosofici rispetto al dibattito democratico di oggi? Per cominciare, ci interroghiamo mai sui costi di una troppo inadeguata lettura dei fenomeni – fatti, statistiche, testimonianze, leggi, sentenze, ecc. – a causa di una sin troppo approssimativa nozione dei termini con cui li si descrive? Si pensi a termini quali “PIL”, “disoccupazione”, “debito pubblico”, “inflazione”, “deficit”, “spread”, e via dicendo; quanti elettori hanno un’adeguata comprensione del modo in cui questi indicatori vengono definiti e calcolati, e quale ruolo esplicativo possono svolgere nel contesto di un dibattito politico?

Si tenga poi presente che malgrado l’istituzionalizzazione della conoscenza, grazie a scolarizzazione e specializzazione scientifica, è pur sempre nel dialogo informale che in genere il linguaggio si forma e rinnova, e il sapere si volgarizza e sedimenta. Tuttavia data la crescente complessità dei processi socio-politici nell’era della globalizzazione e dell’automazione, diventa sempre più onerosa per l’uomo comune una comprensione adeguata dei medesimi, e quindi diventano sempre più seducenti le semplificazioni di chi, in tempi drammatici, fa promesse populistiche, demonizza o grida al complotto. Non sarebbe allora il caso di rivedere gli obiettivi del dibattito democratico, secondo la lezione di Socrate, puntando più sulla validazione delle conoscenze acquisite, che sulla bulimica assimilazione di informazioni nuove? Più sull’educazione collettiva al ragionamento imparziale e cooperativo, che alla definizione populistica o faziosa delle questioni politiche? Più allo spirito di auto-critica che a quello di polemica?

Per finire, fatti tutti i dovuti distinguo, se sostituiamo la democrazia diretta ateniese di allora con la democrazia parlamentare italiana di oggi, i filosofi di allora con gli scienziati o gli accademici di oggi il dilemma di Platone tra democrazia e tecnocrazia resta: o il popolo diventa più filosofico, imparando a dialogare più socraticamente, o saranno i filosofi (i tecnocrati) a dover prendere le decisioni per il popolo, quando i governi eletti si riveleranno inefficaci o incapaci nell’attuare riforme impopolari. Siamo allora così sicuri che non sia questo dilemma, ciò che le vicende più recenti della nostra storia, vogliono in qualche modo riproporci?

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)