di Andrea Beccaro
Ad aprile in Iraq si terranno le elezioni provinciali mentre quelle politiche sono previste per il 2014, ma il problema non sono le elezioni bensì stabilire se il Paese sia in grado di reggere alle pressioni, interne ed esterne, che lo coinvolgono.
La violenza in Iraq resta una costante quotidiana nelle sue più svariate forme (autobombe, attacchi suicidi, sparatorie) tanto da non fare quasi più notizia. Certamente siamo lontani dai dati registrati nel 2006, ma siamo ancora su livelli di guardia che devono far riflettere sul rischio di una nuova caduta verso la guerra civile. Infatti, ciò che più preoccupa sono le fratture (insanabili?) interne. La violenza a cui si accennava è legata all’insorgenza nata dopo l’attacco americano del 2003, ma la contrapposizione tra sunniti e sciiti è solo un aspetto di un problema più vasto di legittimità del potere. Ovvero il problema è il governo centrale di Baghdad e in particolare il ruolo di Nouri al-Maliki.
Nel dicembre 2011 a pochi giorni dal ritiro definitivo americano dal Paese aveva cercato di arrestare con l’accusa di omicidio il vice presidente Hashimi il quale, definendo Maliki un dittatore, era fuggito ed è stato condannato a morte in contumacia. Una situazione similare si è ripetuta a fine 2012 quando elementi delle forze di sicurezza sotto il comando di Maliki hanno provveduto ad arrestare diverse guardie del corpo del ministro delle finanze (sunnita) Rafie al-Issawi. Il fatto è l’ennesimo sopruso, l’ennesima dimostrazione di scarso rispetto delle leggi da parte del primo ministro e ha fatto scattare immediatamente una serie di proteste in tutto il paese e in particolare nella provincia di Anbar. Qui migliaia di sunniti (ma a testimonianza di un atteggiamento ostile nei confronti di Maliki piuttosto diffuso sono presenti anche elementi sciiti legati ad Al-Sadr) sono scesi in strada per chiedere un maggiore rispetto e una maggiore attenzione nei loro confronti visto che si sentono oppressi da politiche discriminatorie portate avanti dagli sciiti legati a Maliki. Ramadi è stata la città che ha catalizzato le proteste, accogliendo inoltre delegazioni provenienti da altre province, ma anche Mosul, Tikrit, Samarra, Falluja hanno visto crescere il dissenso sunnita. All’inizio queste proteste sono state relativamente pacifiche, ma con il perdurare dello scontro non sono mancati forti momenti di tensioni e anche vittime. Ad esempio il 25 gennaio a Falluja si sono contate 4 vittime in alcuni scontri con la polizia che ha aperto il fuoco contro i dimostranti. Nulla può garantire che questa contrapposizione possa in futuro degenerare. Le minacce degli sceicchi sunniti non fanno presagire nulla di buono in questo senso visto che non escludono di arrivare allo scontro aperto con le forze di sicurezza (un incitamento allo scontro arrivato anche ieri da Abu Mohammed al-Adnani, portavoce dell’Islamic State of Iraq legato ad Al-Qaeda). Si riproporrebbe così lo scenario di guerra civile del 2006 e il rischio che l’Iraq diventi nel breve termine una seconda Siria. Questi timori, tutt’altro che infondati visti anche i problemi sociali ed economici che affliggono il Paese, hanno così riportato in auge i progetti federalisti. In passato i sunniti erano contrari per due ragioni: avevano un forte spirito nazionale e abitavano le zone più povere del paese, ovvero non avrebbero potuto godere degli introiti petroliferi. Ora però non escludono la possibilità di un “Sunnistan” nella provincia di Anbar proprio per separarsi dalla politica dittatoriale e discriminatoria di Maliki.
Non va peraltro dimenticato che la provincia di Anbar è sunnita e confina con la Siria. Questi aspetti, sommati all’instabilità della zona derivante dalle proteste e dalla volontà sunnita di arginare il governo di Maliki da sempre considerato alleato troppo stretto dell’Iran, devono aprire una riflessione sul ruolo iracheno nella guerra civile in atto in Siria. Da un lato c’è il governo Maliki che in passato ha consentito il sorvolo dello spazio aereo iracheno da parte di velivoli iraniani con rifornimenti diretti alla Siria, dall’altro lato ci sono le tribù sunnite che danno sostegno e appoggio ai loro correligionari siriani, oltre che zone sicure, a quanto pare, per i combattenti di Al-Qaeda.
Ma Maliki non è solo contestato dai rivali di sempre sunniti, anche i gruppi sciiti stanno riprendendo piede nel paese. Il Mahdi di al-Sadr resta uno dei più importanti, ma forse quello che oggi deve far più riflettere è l’Asa’ib Ahl Al-Haq, nato proprio da una costola del Mahdi. È un gruppo organizzato politicamente e con diverse sedi locali in svariate città e anche in quartieri di Baghdad dove prima regnava incontrastato il Mahdi, ma ciò che rende questo gruppo pericoloso sono tre elementi. Il primo è la sua capacità organizzativa e politica, perché se da un lato ha annunciato di non voler partecipare alle elezioni provinciali di aprile, dall’altro l’apertura di nuove sedi in giro per il paese e l’organizzazione di eventi e dibattiti che ne segue porta il gruppo a essere un attore della politica. Forse non direttamente in queste elezioni, ma di certo prepara il terreno per le prossime che sono anche politicamente ben più rilevanti. Il secondo è un gruppo militarmente capace, organizzato con ottime competenze operative, alcuni suoni leader durante la guerra contro gli americani e la guerra civile sono stati addestrati dagli iraniani e a loro volta hanno addestrato altri militanti iracheni. Il terzo è un gruppo apertamente e profondamente appoggiato dall’Iran, che come per Hezbollah in Libano, anche in Iraq di influenza la politica locale attraverso gruppi di opposizione sia armata sia politica.
Se poi a questa situazione complessiva, già di per sé estremamente caotica e instabile, si somma il fatto che permangono forti contrasti con il Kurdistan per via del petrolio e che lo stesso Kurdistan è oggetto di incursioni turche per colpire i membri del PKK si vede come il paese rischi di diventare un failed state.
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