di Angelica Stramazzi

L’espressione “fuga dei cervelli” viene sovente utilizzata per descrivere una triste realtà: quella di molti giovani talenti italiani che, non trovando opportunità lavorative che consentano loro di dimostrare all’esterno le competenze acquisite dopo anni di preparazione puramente teorica, decidono – il più delle volte a malincuore – di riparare all’estero. Dove – inutile dirlo – trovano un’occupazione che, nella maggior parte dei casi, è in linea con il loro trascorso di studi.

Che l’Italia sia un paese ricco di eccellenze che faticano (per diverse ragioni) ad emergere è ormai risaputo, come sono a tutti noti gli scarsi (o pressoché nulli) investimenti che, in questi ultimi decenni, sono stati fatti nel campo universitario e nel settore della ricerca: il divario tra noi e le restanti nazioni europee si è notevolmente incrementato e la scure dei tagli lineari si è spesso abbattuta su comparti che, per contro, dovevano essere privilegiati e protetti. Al tempo stesso, si è dato il via libera al proliferare della spesa improduttiva, degli sprechi e delle varie ruberie che – soprattutto di recente – sono venute a galla.

In un simile contesto, l’importanza della formazione – ad ogni livello e in ogni campo – non è stata (volutamente) compresa; e ad ogni minima difficoltà, si è cercato (e si cerca tuttora) di ricorrere a figure esterne o terze, nel (vano) tentativo di (ri)sanare situazioni ormai giunte al capolinea. La scelta di Mario Monti alla guida di un governo di (super)tecnici, avvenuta all’incirca un anno e mezzo fa, conferma quanto si sta dicendo. A posteriori – e con gli indicatori della nostra economia reale in picchiata – ciascuno è in grado di valutare lo stato di salute del Paese; e comprendere che l’enfasi eccessiva riposta nella figura di Monti e dei suoi ministri si è drasticamente ridimensionata. Ciononostante, c’è ancora chi si ostina a sostenere la necessità di “cooptare” figure terze anche per il prossimo futuro, nella convinzione che quello che è rimasto dei partiti tradizionali e dei politici di professione non sia più sufficiente ad imprimere una svolta reale e concreta tale da generare un nuovo inizio. Ecco quindi che si ricorre all’inserimento – in un’arena politica già di per sé parecchio affollata – ad esponenti della società civile, concetto assai abusato quanto mai non definito con chiarezza. Gli osservatori (ed ascoltatori) più attenti ci avranno fatto sicuramente caso: il premier dimissionario Monti, espressione del mondo accademico, oltre che persona legata alle alte sfere della finanza (nazionale o non), descrive sé stesso come un esponente della società civile, generando una (voluta) confusione sia nell’immaginario collettivo che nella mente degli elettori, già fin troppo spaesati.

Un discorso a parte meriterebbero poi i vari Ingroia e Giannino (con annessa figuraccia sul master e sulle due lauree mai realmente conseguiti) che si pongono anch’essi come rappresentanti della società civile. Che però – come è stato rilevato da diverse testate nazionali – è sempre più “popolo” e meno “élite”, più comunità e meno oligarchia. Si è così arrivati a sostenere che i soli deputati (nel senso di abilitati a …) a poter rappresentare gli italiani siano gli attivisti del M5S, definiti – secondo il loro gergo d’ordinanza – candidati – portavoce. Di cosa? In primis del malcontento e delle insofferenze di una pluralità di individui contro una minoranza di altri individui, di coloro che non hanno tutele contro chi invece risulta eccessivamente protetto.

Stando ai numeri e alle immagini delle piazze strapiene di gente, il M5S sarebbe l’unico soggetto politico in grado di intercettare gli umori (e le speranze) di questa fantomatica società civile, pur nella consapevolezza che quest’ultima dovrebbe aspirare a farsi rappresentare da personalità competenti e preparate, non già da chi fa della distruzione il proprio unico punto di forza. Ecco quindi tornare il tema dell’importanza della formazione, anche (e soprattutto) in politica, universo in cui fin troppe cose vengono lasciate al caso e all’improvvisazione. E se delle scuole di partito alla vecchia maniera non si sente onestamente la mancanza, sarebbe necessario pensare a diverse forme e modalità di preparazione per tutti coloro che scelgono (si legga: sono scelti) di esporsi pubblicamente, abbracciando l’impegno attivo in favore di questo o quel progetto. Quella che va profilandosi sarà infatti, almeno stando alle (nobili) intenzioni della maggior parte dei candidati in lizza, una legislatura costituente, volta cioè a ristabilire alcuni punti fermi attorno ai quali incentrare tutta l’attività programmatica del nuovo Parlamento. In questo scenario, un ruolo strategico sarà giocato dalla (nutrita) pattuglia di esponenti grillini, alla loro prima esperienza tra i banchi delle nostre istituzioni. Saranno questi in grado di gestire – non da soli ma insieme ad altri, va da sé – una fase estremamente delicata ed importante come quella che ci troveremo a vivere di qui a pochi mesi? O si lasceranno condizionare, nell’approvazione dei provvedimenti legislativi, dalle convinzioni – a volte un po’ bizzarre – del loro capo? Quel che è certo è che se di (reale) rinnovamento e ricambio generazionale dovrà parlarsi, non si potrà (più) omettere di citare l’importanza della formazione e dell’implementazione delle competenze: la politica, come tutte le scienze, non è (sempre) qualcosa di certo ed esatto; ed anch’essa – soprattutto in determinate fasi storiche – procede per tentativi. Che, ci si augura, siano però limitati nel tempo, in modo tale da lasciar spazio alla concretezza, all’attuazione, all’applicazione: il momento dell’improvvisazione dovrebbe essere (finalmente) finito.

 

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