di Antonio Campati

Nel 2005, concludendo la sua «autobiografia», Giorgio Napolitano confessava che non cessava affatto di sentirsi legato alla politica, nonostante considerasse grave e allarmante il suo impoverimento culturale. Però, sottolineava che «Per l’anziano, tuttavia, è bene non prendere alla lettera il pur sapiente precetto di Plutarco: “L’importante è fare attività politica, non averla fatta”. L’esperienza mi dice che il tentativo può riuscire difficile e ingrato. D’altronde, l’età che ho raggiunto predispone piuttosto alla testimonianza e alla riflessione (…); è il tempo del ricordo affettuoso dei tanti con i quali ho combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate, e cercato via via di correggere errori, di esplorare strade nuove» (G. Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Laterza, 2005, p. 331).

In realtà, proprio Giorgio Napolitano, uno dei leader di spicco dell’«ala migliorista» del Pci, continuerà ad avere un ruolo di primo piano nel panorama politico nazionale (e non solo) anche dopo aver mandato alle stampe un lungo e ricco «racconto autobiografico» che è conciso con una storia (1944-1991) «singolare nella sua ricchezza e problematicità», quella della sinistra italiana e del suo maggior partito.

Infatti, con l’elezione alla Presidenza della Repubblica nel maggio 2006, si aprirà per Napolitano un settennato difficile e complesso che fra poche settimane si chiuderà poco dopo l’avvio di una nuova legislatura. È ancora prematuro stendere il classico «bilancio», forse anche perché (nonostante le intensioni in senso contrario espresse pubblicamente da Napolitano stesso) il nuovo incarico al governo che si andrà a formare dopo le elezioni non lo darà il nuovo Presidente bensì quello attualmente in carica a causa della chiusura anticipata della legislatura (seppur di poche settimane). Quindi, non è improbabile che nei prossimi anni si insisterà sulle modalità con le quali sarà formato il prossimo esecutivo (dopo quello sostenuto dalla «strana maggioranza») e sulle quali l’attuale Presidente avrà sicuramente voce in capitolo.

Tuttavia, una prima ricostruzione dell’esperienza della Presidenza Napolitano è quanto mai opportuna, specialmente con metodo comparativo rispetto ai precedenti inquilini del Quirinale. E un lavoro del genere ci viene offerto da Davide Galliani in I sette anni di Napolitano. Evoluzione politico-costituzionale della Presidenza della Repubblica (Università Bocconi Editore, 2012, pp. 192, € 16,00).

Come suggerisce il sottotitolo, l’approccio è quello di un giurista che, per completezza, non dimentica la dimensione storica e politologica, necessarie per un approfondimento di questo tipo; infatti, lo stesso autore ricorda che un buon lavoro sul ruolo del Capo dello Stato deve «amalgamare, come se fossero un tutt’uno, considerazioni sviluppate dall’osservazione del testo costituzionale con ragionamenti che prendono spunto da ciò che è accaduto nella realtà», vale a dire che le «regolarità della politica» devono essere tenute in considerazione assieme alle «regole costituzionali» (pp. 8-9).

Il risultato è un agile testo che nella prima parte si sofferma sul ruolo e sulle responsabilità affidate alla figura del Presidente della Repubblica dalla Costituzione repubblicana che lo dotò, allo stesso tempo, di potestas e di auctoritas. E proprio grazie a queste due speciali peculiarità, è possibile studiare l’attività dei diversi Presidenti succedutisi in questi anni di storia repubblicana in un ottica il più possibile omogenea. Tuttavia, Galliani adotta una sottile distinzione fra mandati consumatisi entro la «stagione costituzionale» e presidenze inserite nella «stagione maggioritaria», quest’ultima inaugurata da Carlo Azeglio Ciampi. Il settennato dell’ex Governatore della Banca d’Italia ha infatti confermato come anche in una democrazia «tendenzialmente bipolare», il ruolo del Capo dello Stato non è affatto secondario (pp. 87-88) e, tra le altre, come un Presidente sentito – e per questo anche eletto – in quanto estraneo al mondo della politica sia in grado di dare fortissimi segnali politici, ovviamente non solo simbolici (come l’insistenza sugli emblemi rappresentativi dell’unità del Paese, inno e bandiera in testa) (p. 96).

In un certo qual modo, sulla stessa scia si colloca il mandato di Giorgio Napolitano al quale è dedicata la corposa parte finale del testo. Pur non essendo assolutamente una personalità estranea alla politica, l’attuale Presidente della Repubblica non ha rinunciato a intervenire nelle vicende politiche più rilevanti e, infatti, secondo Galliani, è interessante approfondire il «metodo» con il quale lo ha fatto (pp. 107-108).

In prevalenza, Napolitano ha agito nell’agone politico adottando comportamenti che mai avrebbero portato il dibattito all’esasperazione; in altre parole, si è basato sulla moral suasion che, sottolinea Galliani, è pur sempre un’arma a doppio taglio, con insidie politiche e costituzionali da non sottovalutare (pp. 107-113). Comunque, gli episodi (e gli interrogativi) riportati aiutano ad approfondire diversi aspetti del settennato in corso, da leggere, però, rintracciando una ulteriore costante: la strenua difesa di talune attribuzioni costituzionali del Presidente della Repubblica attraverso una determinata tutela della sua configurazione (pp. 140-148).

Ad ogni modo, se un rafforzamento del ruolo della Presidenza della Repubblica c’è stato, molto probabilmente si è reso evidente presso l’opinione pubblica nei giorni della nascita del Governo Monti quando, per la prima volta nella storia repubblicana, un Senatore a vita (appena nominato) è stato incaricato di formare il governo, per di più in un complicato momento della vita politico-istituzionale (p. 130).

Nel lavoro di Galliani ci si sofferma su questioni cruciali, sulle loro implicazioni (come nelle ultime pagine, sul ruolo svolto da Napolitano in politica estera), ma si tiene fermo un passaggio fondamentale: una cosa è sostenere che il Presidente italiano ha assunto nel tempo un ruolo sempre più incisivo, tutt’altra che il nostro paese di fatto funzioni come i sistemi presidenziali o semipresidenziali (p. 137).

Una simile affermazione deve rimanere un punto fermo (o d’avvio) se si vogliono (ri)affrontare discussioni su possibili riforme costituzionali oppure, come lo stesso Galliani scrive, «forse la verità è che per la politica non è mai il tempo di affrontare queste tematiche che riguardano il Capo dello Stato. Se lo si fa appena eletto lo si delegittima. In fase finale del mandato sembra una bocciatura. Durante il settennato l’auctoritas della carica impedisce qualsiasi serio ragionamento. La maggior parte della classe politica preferisce schierarsi seccamente pro o contro l’elezione diretta. Troppo facile. Si prende posizione come se si fosse toccato il fondo quando invece così non è» (p. 27).

 

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