di Luca Ozzano
Se mi chiedessero quale sia stato il partito chiave per il risultato di queste elezioni, probabilmente risponderei SEL. Non nego la rilevanza dei risultati del M5S o del partito di Berlusconi, ma sono fattori che hanno evidenziato quasi tutti. Quasi nessuno ha fatto notare, invece, che le scelte strategiche del partito di Vendola sono state cruciali, in particolare nel negare la maggioranza anche al Senato al centrosinistra.
Nel complesso, il Partito Democratico – qualunque cosa si possa dire sul basso profilo della sua campagna – ha fatto il proprio dovere, gestendo una situazione non facile e riuscendo a perdere un numero limitato di voti di fronte all’avanzata di Grillo. Se il PD, in quanto partito ‘di sistema’, non era probabilmente in grado in questa fase di sottrarre voti all’antisistema M5S, SEL – proprio in quanto considerato come partito della sinistra ‘radicale’ – ne aveva invece la possibilità. E infatti molti di quei voti gli risultavano attribuiti dai sondaggi quando, alla vigilia del governo Monti, era accreditato come il terzo partito italiano, sfiorando il 10%. Vero che i sondaggi di quel tipo tendono spesso a sgonfiarsi in vista del voto; ma vero anche che SEL avrebbe potuto giovarsi della sua qualità di unico alleato ‘a sinistra’ di Bersani per raggiungere un risultato almeno uguale a quello conseguito da Di Pietro nel 2008. Del resto, il partito di Vendola aveva tutto, o quasi, per garantirsi un risultato elettorale di rilievo: una base numerosa ed entusiasta, quella delle ‘fabbriche di Nichi’, sorte in poco tempo a decine in tutta Italia; un leader carismatico, controverso, ma dall’appeal indiscusso; un messaggio innovativo, che coniugava attenzione per il lavoro e dialogo con l’imprenditoria, socialismo e rispetto per i credenti, e usava molto più di altre formazioni i nuovi media; e un’esperienza di governo positiva, quella della Puglia (e poi quelle di Milano e Genova), che poteva accreditare il partito anche oltre la semplice immagine della formazione di protesta.
In poco più di un anno, SEL è stata capace di dilapidare questo capitale, piombando al 3 per cento delle recenti elezioni. In parte questo calo è dovuto a fattori congiunturali, in particolare il lungo logoramento del governo Monti, che ha messo il partito in una posizione difficile. Ma anche le vicende giudiziarie dello stesso Vendola, che si sono concluse con un esito positivo troppo tardi per consentirgli di lanciare un’efficace campagna per le primarie (in cui, a fine 2011, sarebbe stato probabilmente lui, e non Renzi, il principale competitore di Bersani).
Oltre ai fattori congiunturali ci sono tuttavia delle scelte precise di carattere strategico, che hanno impedito al partito di cogliere un’affermazione di rilievo. In primo luogo la scelta di puntare sull’apparato di partito nel periodo di traghettamento del governo Monti, piuttosto che sul movimento delle fabbriche (che è stato sostanzialmente dismesso, o comunque fortemente depotenziato). Una scelta legittima, per una forza politica nuova che aspiri a diventare di governo. Ma anche un vizio originale della sinistra, che da sempre, nonostante le dichiarazioni di principio – come messo in luce già decenni fa dai sociologi Cloward e Piven rispetto all’esperienza americana –, finisce per considerare il movimento come un second best inaffidabile, per puntare invece sull’apparato.
La negatività di questa scelta è stata chiara al momento dell’avvio della campagna per le primarie, quando si è constatato che i militanti a favore della candidatura di Vendola erano solo una piccola frazione di quanti impegnati nelle ‘fabbriche’ solo un anno prima. Gli altri si erano disillusi, o erano defluiti verso altre esperienze, dal M5S a gruppi di estrema sinistra.
Anche coloro che hanno scelto comunque di impegnarsi sono stati ancora delusi dall’apparato, in particolare con la scelta di organizzare – male e in tutta fretta – le ‘parlamentarie’ insieme al PD, per poi disattenderne l’esito, paracadutando a capo delle liste, in quasi tutte le posizioni utili, esponenti decisi dai vertici centrali. Esponenti che in qualche caso avevano legami con la realtà locale del partito, in altri erano completamente avulsi da essa.
A tutto questo si è aggiunto anche uno scadimento a livello di messaggio, che ha portato SEL a diventare piuttosto una Rifondazione 2.0, con un allentamento dell’attenzione su temi come quelli dell’ambiente e delle nuove tecnologie, per concentrarsi quasi esclusivamente sui diritti civili e quelli del lavoro. Tanto che alcuni, quando sono state rivelate le liste, hanno commentato che SEL sembrava essere diventata il partito della FIOM.
Questo complesso di fattori ha fatto sì che SEL non ottenesse il successo che avrebbe potuto cogliere nelle elezioni politiche, cedendo invece almeno 3-4 punti percentuali, che sono affluiti molto probabilmente verso il movimento di Grillo. Ed è stato così che il centrosinistra non ha vinto le elezioni.
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