di Cesare Silla

A noi che la miseria degli altri non impedisce di vivere, che essa non ci impedisca almeno di pensare. Non crediamoci tenuti a sragionare per testimoniare i nostri buoni sentimenti” (Raymond Aron).

Provare a scrivere di memoria secondo la prospettiva della nazione italiana, o della storia italiana, o dell’italianità, è un azzardo, morale prima che intellettuale. Poiché la nostra memoria storica è lacerata; poiché la nostra storia politica è tortuosa. Noi siamo i figli di due rimozioni lontane nel passato, quella del trascorso monarchico e quella del ventennio fascista. Noi siamo i figli di una stagione, più recente, in cui terrorismi di due specie contrapposte volevano rovesciare il regime repubblicano faticosamente conquistato (e ancora non sappiamo con l’aiuto, o la connivenza di chi, gli uni o gli altri seminarono morte e dolore in vista di quello che ritenevano un bene superiore). Si può dire che il compito di fare gli italiani, dopo aver fatto l’Italia, sia un progetto per molti aspetti ancora incompiuto, poiché incompiuta è la costruzione di una memoria storica condivisa che, al contrario, rappresenta ancora oggi un elemento di contrapposizione, divisione o ignoranza reciproca.

Credo, tuttavia, che l’affermazione di Aron riportata in esergo ricordi a chi esercita il pensiero per mestiere o per vocazione che la giustezza morale non possa che derivare dalla massima onestà intellettuale, e non, appunto, dalla testimonianza, o dall’esibizione, di buoni sentimenti. Lascio volentieri quest’ultima al tribuno e provo ad avanzare qualche riflessione che chiarisca quale mi sembra essere il peccato originale di questa condizione divisiva. Per provare a chiarire questo punto centrale del ragionamento devo avanzare alcune considerazioni generali sulla relazione tra memoria, ricordo e storia, per mostrare come mi pare debbano articolarsi nella costruzione della memoria storica comune di una collettività.

La memoria è sospesa tra il ricordo, intimo e personale, e la storia, esteriore e oggettiva. La memoria è sempre di un uomo, o di alcuni uomini, che sono passati attraverso un accadimento memorabile e, quando trasmessa, diventa fin da subito qualcosa di diverso: una testimonianza, una narrazione che muove per ciò stesso verso il polo della storia, fosse anche soltanto storia orale di una famiglia. Il versante soggettivo della memoria, essendo legato ad accadimenti vissuti direttamente, porta con sé le passioni che ha suscitato. La memoria di una vittima, può, perciò, per esempio, essere accompagnata da una passione genuina di odio verso il proprio carnefice che, attraverso un eventuale processo di rielaborazione, può tradursi in una volontà di perdono, altrettanto genuina e personale.

Chi riceve in custodia la memoria di una vittima e del suo calvario, non può custodire allo stesso tempo le passioni e i sentimenti della vittima stessa: il custode della memoria non può odiare, o perdonare, il carnefice di qualcun altro. L’odio e il perdono sono falsi, e financo pericolosi, quando pretendono di essere assunti astrattamente da coloro che non hanno vissuto le esperienze che li hanno generati. Si può certo odiare, o perdonare, colui che compie del male nei confronti di qualcuno che io amo; ma questo è possibile, e giusto, soltanto perché io ne sono toccato direttamente, essendo il male rivolto a qualcuno che è in relazione diretta con la mia vita; con un volto che è personale, che mi è caro e di cui mi curo. Per questo non si può amare astrattamente l’umanità – quanti delitti sono stati commessi in nome del generico amore per l’umanità! – ma si ama di volta in volta un uomo concreto in carne e ossa. Solo così si può essere responsabili: se si incarna l’universale in un particolare concreto.

Ciò che io posso, e devo fare, secondo la responsabilità propria di chi riceve la memoria personale di altri, è custodirla e trasmetterla; ma è, soprattutto, comprenderne l’esperienza vissuta, per quanto non ci sia dato di entrare nell’animo dell’altro. Capire perché, e come mai, si è potuti arrivare là dove si è arrivati. In modo tale da sapersi riconoscere carnefici qualora gli avvenimenti della vita ci portino in una posizione simile a quella in cui un uomo può diventare il carnefice di un altro uomo, e scegliere di restare tale. La memoria di una vittima deve insegnare non odio, o perdono, entrambi astratti se avulsi dall’accadimento personale che li ha generati; ma deve prepararci a non diventare, a nostra volta, carnefici. Solo se sappiamo decidere secondo convinzione ragionevole del male del carnefice, e comprendere perché è arrivato a compiere quel male, la custodia della memoria ha senso. Altrimenti diventa, o rimane, un orpello per anime belle che hanno bisogno di ricordare, a loro stessi ma soprattutto agli altri, quanto loro sì, siano davvero buone! La più meschina delle conseguenze di una tale situazione è che dalla custodia della memoria si finisca all’appropriazione della memoria, spesso resa celebrazione di chi non ha avuto storicamente e personalmente parte alcuna in quegli eventi che quella memoria hanno generato.

Muoviamo qui verso il secondo polo della questione: la memoria che diventa storia; cioè la memoria storica di una comunità, la sua costruzione e la sua custodia. Questo passaggio ha bisogno di una premessa a mio parere decisiva, che necessita a sua volta di una breve digressione dentro la scienza del nostro tempo e la sua messa alla prova nel male del secolo. Come ci insegnano le scienze sociali, che sono attente alle determinazioni strutturali della storia, le cerimonie collettive, i riti, le celebrazioni servono per cementificare il sentimento di solidarietà degli uomini che vivono insieme, tanto che un padre di queste scienze dovette inventarsi una “religione dell’umanità” a fondamento del suo magnifico progetto di ingegneria sociale. Ciò che, tuttavia, questi scienziati sembrano spesso dimenticare, proprio perché attenti alle grandi e permanenti necessità storiche che determinano l’agire dell’uomo, è che in egual misura, o forse in misura maggiore come sembrerebbe suggerire la prudenza degli antichi, ciò che davvero conta è il contenuto di verità che riempie tali forme di celebrazione collettiva; ciò che davvero contra è il bene che esse custodiscono, ricordano e attualizzano. Sarebbe forse meglio dire: ciò che davvero conta è che il contenuto di verità che le sottende sia valutato come vero da parte di coloro che vi partecipano; che esso sia pensato come un bene da custodire per la vita della comunità. Questo, e solo questo in ultima istanza, è ciò che rende tali riti, celebrazioni e festività degne di essere perpetuate. Efficaci nel vivificare lo spirito di una nazione.

Nel semestre estivo del 1964, Eric Voegelin tenne una serie di lezioni sul mistero della relazione tra Hitler e il popolo tedesco; egli era di ritorno in Germania dopo essere riuscito a sfuggire fortunosamente all’arresto da parte dei nazisti nel 1938 (a proposito di memoria storica, non possiamo non ricordare che proprio nell’anno in cui un gigante del pensiero accettava la nomina a Rettore dell’Università di Friburgo – seppur per un breve periodo – il libro di Voegelin sull’idea di razza veniva ritirato dal commercio). Queste lezioni sono tanto penetranti quanto diffusamente ignorate, proprio perché l’idea che siano primariamente il carattere degli uomini, e le loro azioni, a determinare gli eventi storici, non è nel nostro tempo così alla moda. In una di quelle lezioni Voegelin affermava – in pieno spirito di polemica con la political correctness tipica già di quegli anni – che il diritto è inutile se gli uomini che lo dovrebbero esercitare, e coloro verso i quali è rivolto, non sono moralmente integri:

“All’epoca vi fu un grande dibattito tra i giuristi per determinare se la Costituzione di Weimar, che in realtà non venne mai abolita ma solo modificata, fosse ancora di fatto la Costituzione del Reich di Hitler o se si fosse verificata una rivoluzione. Una magnifica discussione tra giuristi. Nel frattempo la gente veniva assassinata. Di nuovo ciò non interessava ai giuristi, che si occupavano solo di applicare o meno una determinata costruzione giuridica. Quindi ciò che conta è la condizione morale di una società, non la costruzione giuridica, che di fatto ha senso solo nel caso in cui la società sia integra e non ignori i principi di base che la reggono”.

La scienza positiva fu, nel caso dei crimini nazisti, totalmente cieca di fronte alla realtà che pretendeva di illuminare. I giuristi dell’epoca sanzionavano nel nome della Legge dei veri e propri crimini contro la giustizia. A patto, naturalmente, di essere disposti ad accettare che esista una giustizia vera al di sopra di ciò che di volta in volta è formalmente statuito come giusto. Altrimenti, avverte Voegelin, correremmo il rischio di riscoprirci tutti nazisti sotto il Nazismo. Ecco perché, con un’inversione commovente – da eroicità del pensiero – egli poteva affermare che “se una società è integra, non ha bisogno di diritti fondamentali per determinare ciò che si deve fare. Nessuno lo farà mai comunque” (ivi: 206). Per questo motivo, il problema del Nazismo poteva e doveva essere posto nei termini del rapporto di uomini con un altro uomo; non di leggi o necessità storiche. Ecco perché il tema delle lezioni era Hitler e i tedeschi, e non il Nazismo e la Germania. Di capacità di riconoscere il male del carnefice, e dei motivi per cui uomini in carne ed ossa erano diventati carnefici e avevano scelto di perpetuare quel male, si trattava.

Non ho compiuto questa breve digressione nel mistero del male assoluto del Novecento soltanto perché anche la storia della nostra nazione ne fu compartecipe; l’ho fatto soprattutto per mostrare quanto la solennità ufficiale della memoria storica sia lettera morta qualora il contenuto che le dà forma non sia creduto come vero; non sia ritenuto degno di essere ricordato. Al massimo, come la Legge Fondamentale tedesca per Voegelin – in cui all’articolo 1 è solennemente sancita l’inviolabilità della dignità umana – può rappresentare un disincentivo psicologico a trasgredire i principi che sancisce. Ovviamente finché non s’inventi qualche categoria di non-umano tra gli uomini…

Cosa questo mi pare voglia dire per l’Italia e la sua memoria storica comune? Non pretendo certamente di avanzare una risposta esaustiva e risolutoria. Credo però, avendo seguito questa linea di ragionamento, di aver messo in luce una premessa fondamentale che mi pare, nel caso italiano, sia sostanzialmente inevasa. Provo a esprimerla in questi termini: invece di replicare narrazioni cerimoniali che sono per molti indifferenti, proviamo a mostrare la verità e il bene che queste narrazioni sottendono o custodiscono. Facciamo, insomma, lezioni di storia sulla memoria, oltre che celebrazioni di memoria sulla storia. Queste sono indispensabili ma sostanzialmente inutili se non si è compiuto il primo passo. Esso è, sul piano della storia, ciò che ho detto essere la responsabilità del custode della memoria sul piano del ricordo. Cerchiamo di comprendere il male dentro la nostra storia e perché lì siamo arrivati. Cerchiamo di comprenderlo ricordandoci che il senso di questa comprensione non è alimentare un odio posticcio verso i carnefici del passato, ma è comprendere le vie, e i motivi, per cui quei carnefici sono diventati tali. Solo così si potranno discernere ragionevolmente sulle responsabilità, e i meriti, degli uni e degli altri. Solo così potremo assumere responsabilmente tutta la nostra storia, e non fondarla su rimozioni che mostrano più timore del passato, di ciò che siamo stati, piuttosto che fiducia nel futuro, di ciò che potremo essere.

La memoria storica comune di una nazione si costruisce attraverso la comprensione di ciò che siamo stati e di come siamo diventati ciò che siamo; non alimentando forzatamente odi e perdoni di generazioni che sono passate. Se l’Italia repubblicana è un (nuovo) inizio, essa non può pretendersi l’origine dell’italianità, poiché essa è parte di una storia che la precede nel tempo, i cui mali non possono essere rimossi, al pari dei beni che si vogliono invece conservare. Sono entrambi parte di ciò che siamo e, come spesso accade nella storia, essi si rivelano spesso meno definiti di quanto possa sembrare a un’osservazione timorosa e priva di sereno discernimento. E questa commistione, in fondo, è un bene per chi deve conciliare memorie personali e collettive diverse e divisive. E guardare al futuro con vera fiducia e unità d’intenti.

 

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