di Alessandro Campi

Assecondare Grillo nelle sue richieste, sperando così di condurlo sulla retta via parlamentare e di averlo come alleato più o meno fedele, o sfidarlo sul terreno del programma e delle idee, contestandone le posizioni, lo stile, il linguaggio e la stessa concezione della politica e della democrazia di cui è portatore?

Il dilemma di Bersani e del Pd – impegnati in questi giorni a corteggiare il M5S nella speranza che sostenga un governo di centrosinistra – è lo stesso, a ben vedere, che per circa un ventennio si è trovato ad affrontare Silvio Berlusconi con riferimento alla Lega. Nei primi anni Novanta, quest’ultima era un partito populista e di protesta su posizioni assai radicali: predicava la rivolta fiscale, inveiva contro la classe politica e i partiti tradizionali (“tutti ladri”, “tutti in galera”), caldeggiava la secessione da “Roma ladrona” e presentava pericolose inclinazioni xenofobe (contro meridionali e immigrati). Ma a dispetto di tali posizioni, difficilmente riconducibili a quelle di una destra liberale o moderata, il Cavaliere, che ha sempre avuto bisogno di Bossi per vincere le elezioni e per governare, ne ha fatto sin dal primo giorno il suo alleato strategico: non solo l’ha assecondato in ogni richiesta (il più recente regalo ai leghisti è stato la Lombardia), non solo gli ha concesso ruoli e incarichi ben al di là dell’effettivo peso elettorale del Carroccio, ma ne ha sempre sopportato – per interesse e convenienza – gli insulti personali, gli sberleffi, le minacce e persino i periodici tradimenti.

C’è chi sostiene che se Berlusconi non avesse, per così dire, costituzionalizzato la Lega, inserendola a pieno titolo nella dialettica parlamentare e chiamandola a responsabilità di governo, quest’ultima sarebbe potuta diventare un movimento politico eversivo, pericoloso per la democrazia italiana. Ma c’è anche chi sostiene che Forza Italia prima e il Pdl poi hanno pagato a caro prezzo, sul piano politico-culturale e dell’immagine, la scelta di inseguire o assecondare o sposare in modo acritico, in una infinità di occasioni, le richieste, le posizioni e le istanze ideologiche della Lega.

Non c’è il rischio, per venire all’oggi, che il Pd commetta un errore analogo nei confronti di Grillo e del M5S? Anche quest’ultimo è un movimento populista e radicale, caratterizzato (almeno al vertice) da un tratto persino messianico-apocalittico: predica la scomparsa dei partiti e delle istituzioni rappresentative, indirizza agli avversari epiteti e ingiurie d’ogni tipo, chiede l’uscita dell’Italia dall’euro, teorizza la decrescita come modello economico, vede ovunque complotti e macchinazioni messe in atto dai poteri finanziari e dalle multinazionali contro i cittadini, vagheggia l’inizio di un’era dell’acquario della politica nel segno di un’assoluta trasparenza garantita dall’uso delle nuove tecnologie informatiche. Sino a che punto ci si può spingere nel corteggiamento ad un movimento con queste caratteristiche, guidato per di più da un leader carismatico, aggressivo e incline alla demagogia, che guida la sua organizzazione come se si trattasse di una setta iniziatica (ancora ieri ha scomunicato, invitandoli a dimettersi, quei senatori che hanno disatteso il suo ordine di non schierarsi nella votazione per la presidenza del Senato), che si sottrae a qualunque discussione o confronto e che mostra di aver un’idea della democrazia alquanto bizzarra (la sua reale aspirazione, ha detto di recente, è poter conquistare il cento per cento dei consensi)?

Tra i lettori qualcuno troverà questo paragone improprio o inesatto. Il Cavaliere e Bossi, come accennato, sono stati alleati sin dal 1994. Bersani e Grillo alle ultime elezioni si sono invece combattuti. Forza Italia era un partito appena nato, quanto scelse di scendere a patti col Carroccio, mentre il Pd è un partito strutturato e con una storia (anche se breve) alle spalle. Berlusconi era a sua volta un campione dell’antipolitica, esattamente come Bossi, mentre Bersani rispetto a Grillo è un esponente della vecchia nomenclatura. Il M5S, infine, ha idee e programmi molto diversi da quelli della Lega delle origini (ferma restando la comune vocazione antisistema e, per così dire, “rivoluzionaria”).

Ma non possono sfuggire le analogie tra le due situazioni. Il Pd ha bisogno dei voti di Grillo per poter governare, come a suo tempo a Berlusconi servivano quelli di Bossi per lo stesso motivo. Viene allora da chiedersi cosa è disposto a concedere Bersani al suo eventuale alleato pur di raggiungere questo traguardo tattico? Se faranno un governo insieme sarà di manica larga, sui programmi e sulle scelte di governo, come è stato il Cavaliere con la Lega? Si convertirà all’ecologismo radicale, all’antindustrialismo e alla mistica della comunicazione digitale come Berlusconi strada facendo si è convertito, per necessità, al federalismo e all’euroscetticismo dei leghisti?

Ma il Pd sembra convinto – considerando il clima che si respira nel Paese, di assoluta sfiducia nei confronti della politica e delle istituzioni, di rabbia e frustrazione crescenti – di dover fare proprie le istanze di radicale rinnovamento avanzate dai grillini, senza nemmeno rendersi conto che una classe politica che avalla la demagogia antipolitica per paura, per spirito di sopravvivenza o semplicemente per assecondare l’umore popolare, si condanna fatalmente all’estinzione.

Insomma, l’esperienza (quella italiana, ma anche quella di altri Paesi europei) insegna che stringere alleanze o accordi con i movimenti populisti (di destra o di sinistra), inseguire le loro parole d’ordine, rappresenta un rischio per le forze politiche che rifuggono dall’estremismo verbale e ideologico (il che non significa che non si debbano prendere sul serio le ragioni che spingono i cittadini a votarli). Tutto ciò detto, Bersani – senza nemmeno rendersene conto – ha una grande fortuna rispetto a Berlusconi, che forse gli impedirà di commettere gli stessi errori di quest’ultimo. La Lega con il Cavaliere si è alleata ben volentieri. Grillo di allearsi col Pd non ha invece alcuna intenzione.

* Articolo apparso (in forma leggermente meno ampia) sul “Messaggero” del 18 marzo 2013.

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