di Antonio Capitano
Partiamo da un dato. L’austerità ha fallito e conduce al fallimento. Alimenta le tensioni e la frattura sociale. E allora? Serve altro? A cosa serve una cura da cavallo se il paziente non risponde alle cure?
Si è voluto dare un’impronta alla tedesca o all’inglese per risolvere problemi che andavano invece risolti attraverso quella “difesa del Welfare State” che ci riporta alla memoria reale quel Federico Caffè la cui voce è più attuale che mai. L’insistere su una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell’espressione dello Stato garante del benessere sociale; che affidi all’intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica; può dare l’impressione di qualcosa di datato e di una inclinazione al ripetitivo e al predicatorio, tollerabile per sopportazione più che per convincimento.
Ora, se leggiamo queste parole avendo ben presente il disastro che si sta compiendo giorno dopo giorno possiamo renderci conto (o meglio rendere conto a chi non vuol capire…) che quella alla quale stiamo assistendo inermi è la distruzione dello stato sociale che sta mortificando “le attese della povera gente” ma anche i sentimenti di speranza per il futuro.
L’uccisione dell’economia reale ha resettato tutte le convinzioni che non basta “diminuire il numero degli zeri” ma occorre affrontare con spirito realmente europeo questa crisi che è anzitutto crisi di programmazione e coscienza di un mondo votato agli eccessi con rubinetti aperti da tutte le parti e che nessuno riesce a chiudere perché manca l’esperto idraulico che possiede la chiave per accedere alla regolazione dell’acqua. Troppi paradossi governano l’economia e in particolare quella europea è piena ci contraddizioni. Basti pensare alla fruttuosa impresa automobilistica tedesca che può permettersi di dividere gli utili tra gli operai con la conseguenza di un impatto di benessere per cui vale la pena lavorare per la nazione. Qui in Italia, invece, si assiste ad un fenomeno contrario con la pretesa di vendere auto senza pensare che i potenziali acquirenti non hanno risorse per metterci il carburante. Un’immagine questa che impatta su ciò che sta accadendo. Squilibri sociali incolmabili argutamente intuiti da Paolo Sylos Labini in tempi di prosperità relativa quando il risparmio tutto sommato aveva un valore e il carrello della spesa riusciva ad essere pieno con una moneta che reggeva il colpo.
La recente indagine Bankitalia sul risparmio inchioda ancora di più i cultori dell’austerità alle proprie responsabilità. Anche Giorgio Ruffolo in uno scritto di due anni fa rifletteva sul fatto che “negli anni immediatamente precedenti l’ultima grande crisi, la liquidità mondiale superava il prodotto reale mondiale di dodici volte. Lo squilibrio era colmato da un gigantesco indebitamento: come dire che l’economia si regge non, come nei tempi passati, sullo sfruttamento presente, ma sui redditi futuri. Cioè, sulla fiducia. Viene però, fatalmente, il momento in cui le onde del debito cessano di accavallarsi le une sulle altre per infrangersi sulla riva. È il momento della crisi che stiamo attraversando: quando, come dice Galbraith, gli sciocchi sono divisi dal loro denaro. Ma anche gli incolpevoli lavoratori dal loro lavoro. E che minaccia di tradursi in una recessione mondiale. Che è come dire: in una generale austerità”.
Ben ricorda Giovanni Ajassa che tra gennaio 2008 e gennaio 2013 il tasso di disoccupazione giovanile è praticamente raddoppiato in Italia, passando da venti a poco meno di quaranta punti percentuali. È quasi triplicato in Spagna, dove muove verso i sessanta punti percentuali. È invece diminuito di quasi quattro punti in Germania, dove la quota dei giovani disoccupati sulle forze di lavoro si colloca oggi sotto l’otto per cento. Aggiunge Ajassa che la divergenza cresce, e le medie statistiche sempre più denunciano il sapore amaro e indigesto del pollo di Trilussa. Le distanze nell’Europa del lavoro aumentano e con esse cresce la pressione perché da parte dell’Unione europea si faccia qualcosa. Qualcosa che dia concretezza a quell’impegno di “growth-friendly fiscal consolidation”, di risanamento amico della crescita, che è stato sottoscritto dalle conclusioni del Consiglio Europeo di giugno dello scorso anno e che è cosa ben diversa da programmi di mera austerità.
In questo quadro, le “nuove alleanze” proseguono sulla scelta dell’austerità con la Merkel tutta lanciata verso un patto europeo per la competitività che profuma già di fiscal compact con qualche invenzione rigorista dalle conseguenze imprevedibili per welfare e ripresa.
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