di Danilo Breschi
Il passato politico preunitario della nostra penisola è stato prevalentemente all’insegna del localismo, “dell’interiorizzazione della piccola patria della tradizione”, la quale, come ha ben evidenziato in molti suoi studi Marco Meriggi, “continuerà a lungo, per tutto il corso dell’età liberale, a imporsi come sentimento diffuso e a lasciare il proprio segno evidente nelle strategie politiche del notabilato aristocratico-borghese insediatosi al timone istituzionale del regno d’Italia”.
Questo “sentimento”, questa mentalità e attitudine politica diffuse ben poco si addicono ad una genuina cultura federalista, e semmai hanno contribuito ad iniettare all’interno dell’organismo statuale italiano una sorta di “doppia fedeltà” – sempre per usare le parole di Meriggi – al municipio, da un lato, alla nazione, dall’altro.
Resta da chiedersi quanto l’unificazione politico-amministrativa successiva al 1861 e compiuta nel corso del cosiddetta “età liberale” (1861-1915) abbia effettivamente contribuito a rimuovere la rete di clientele, i circuiti della mediazione politica e i meccanismi di riproduzione del notabilato locale e del suo consenso politico, complessa macchina “cetual-corporativa” ramificata in molti Stati preunitari e specialmente in vaste aree del regno borbonico e dello Stato pontificio. L’intenzione di modificare modalità paternalistiche e semi-feudali di organizzazione e distribuzione del potere e dei processi decisionali animò gran parte delle scelte politiche della Destra storica, ma anche di diversi esponenti della Sinistra storica.
E sin da subito quella classe politica, qui intesa nel suo insieme liberal-nazionale, al di là delle originarie provenienze ideologiche, comprese che il federalismo, comunque inteso e comunque concretamente declinato, sarebbe diventato, nella migliore delle ipotesi, un alibi o, nella peggiore, un cavallo di troia di un mai rimosso e mai sopito municipalismo ben poco propenso alla civilizzazione liberal-costituzionale e ad una cultura dei diritti individuali.
In altri termini, la classe politica liberale dei primi anni Sessanta, con Cavour in testa, non aveva affatto una predilezione ideologica per il centralismo amministrativo di stampo franco-napoleonico. Fino a tutto il 1859 lo stesso Cavour aveva respinto la formazione di uno Stato italiano unificato in termini centralistici, considerandolo una “utopia politica”. Del resto, non va dimenticato quanto Rosario Romeo aveva già evidenziato una quarantina di anni fa, ovvero quanto la stagione liberale dello Stato piemontese inaugurata dal “Connubio” del 1852 tra Cavour e Rattazzi non avesse affatto inciso sul piano delle riforme amministrative e giudiziarie. L’impatto, indubbiamente forte, prodotto dalla leadership cavouriana si esplicò soprattutto nella sfera delle riforme economiche del regno di Sardegna.
Se non al federalismo vero e proprio, Cavour e molti esponenti della élite liberale risorgimentale (e immediatamente post-risorgimentale) guardavano con simpatia alle tesi del decentramento e del governo locale, secondo una lezione ben appresa e molto seguita, proveniente dal liberalismo anglosassone. Ma proprio quella lezione insegnava anche che l’autogoverno, fosse pure a livello amministrativo locale, necessitava di un consistente e diffuso livello di educazione e istruzione per essere efficace e soprattutto virtuoso, ossia rispettoso della crescita della libertà e dell’iniziativa individuale, anzitutto economica.
Sotto questo profilo, l’improvvisa annessione del Mezzogiorno d’Italia rappresentò per la classe politica settentrionale (piemontese, toscana, lombarda ed emiliana) uno shock culturale, e le prime impressioni, fors’anche affrettate e alterate dalle fortissime preoccupazioni del momento, alimentarono a dismisura antichi pregiudizi e fecero ritenere che, se unificazione dell’intera penisola doveva essere, solo una decisa politica di controllo dal centro, che in quel frangente voleva dire da Torino e dintorni, avrebbe potuto operare quella “civilisation étatique” senza cui non si sarebbe mai creato un ordine nella libertà e nel progresso.
Senza commettere l’errore di collegare meccanicamente presente e passato, è indubbio che un’attenta rilettura del rapporto tra moto risorgimentale, processo di unificazione italiana e cultura politica federalista può aiutare a comprendere alcuni punti nodali dell’attuale crisi dello Stato italiano, a partire dall’allarmante carenza, per non dire assenza, di una classe dirigente, anzitutto locale, veramente nazionale nelle intenzioni e nelle decisioni. Il rischio, grave, che si corre a poco più di 150 anni dall’Unità, è che la democrazia rappresentativa, così come funziona in molte regioni, tra clientele, corruttele e correlate spese improduttive, possa entrare in rotta di collisione con l’unità del Paese.
Nelle sue memorie, Giovanni Giolitti ricordava ragione e fine della propria azione costantemente ispirata ad un pragmatismo talora estremo: “le leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese […]. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito”. L’epoca e il contesto potevano giustificare in parte quel precetto, che comunque ha portato l’abito a deformarsi fino a strapparsi. Le gibbosità di una nazione non restano stazionarie, ma si modificano nel tempo, e peggiorano se non curate. Oggigiorno, continuare a cucire l’abito per il gobbo potrebbe finire col certificare il fallimento del sogno risorgimentale di fare dell’Italia una nazione politicamente ed economicamente moderna, libera e progredita in costumi ed istituzioni. Reiterando il Giolitti-style, tanto Cavour quanto Mazzini uscirebbero sconfitti per sempre. Per non parlare di Garibaldi. E bye-bye Italia!
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