di Alessandro Campi
Quando si fanno pubblici e appassionati appelli alla concordia, come ieri Bossi durante il suo intervento al raduno di Pontida, è perché esistono conflitti che si cerca di superare o di nascondere ad occhi esterni. Non sono dunque un’invenzione dei “giornalisti di regime”, come ha detto polemicamente Maroni chiudendo l’incontro, le notizie sulle divisioni che attraversano il gruppo dirigente del Carroccio e la sua base militante: bossiani contro maroniani, lombardi contro veneti, veneti seguaci di Zaia contro veneti sostenitori di Tosi, la vecchia guardia contro la nuova, filoberlusconiani contro antiberlusconiani.
Tali contrasti, che da mesi vanno producendo all’interno della Lega espulsioni di dissidenti e continue minacce di scissione, sono piuttosto il frutto avvelenato di un cambio al vertice avvenuto, come si ricorderà, in maniera traumatica, in seguito alle accuse e agli scandali che nel giro di poche settimane travolsero il “cerchio magico” bossiano e azzerarono la credibilità di un partito che era nato e cresciuto proprio denunciando la corruzione e il malaffare.
Maroni divenne segretario agitando le ramazze, annunciando di voler chiudere ogni rapporto con Berlusconi e promettendo un cambio radicale di strategia politica e di linguaggio (smettendola, ad esempio, col folclore celtizzante). Ma l’eliminazione dalla scena del fondatore e dei suoi seguaci è parsa, più che l’inizio di una nuova stagione, una resa dei conti covata nel tempo e che aspettava solo l’occasione giusta per concretizzarsi. Quanto alla storica alleanza con il Cavaliere, smentendo i proponimenti del giorno prima, è stata rinnovata in cambio della Lombardia, ma accettando rispetto al passato una posizione di marcata subalternità al Pdl. A ciò si aggiungano i risultati alle urne assai deludenti (addirittura disastrosi in Veneto) e una linea politica che è tornata ad agitare, senza alcuna originalità, il fantasma della secessione nordista (nella variante lessicale della cosiddetta macroregione padana).
L’incontro di ieri, durante il quale si è messa una toppa momentanea alle lacerazioni interne, ha confermato che la Lega, nell’ultimo anno, non ha subito solo un tracollo di’immagine, ma ha anche perso alcuni dei suoi storici cavalli di battaglia. È dunque in crisi di idee e prospettive. La denuncia della “politica ladrona” , ad esempio, le è stata scippata dai grillini. Mentre la ricetta federalista, che per una certa fase era stata fatta propria da tutto lo spettro politico, più per ingraziarsi i leghisti che per intima convinzione, è semplicemente sparita dall’agenda politica senza aver prodotto alcuna innovazione nel nostro tessuto istituzionale. Segno che non era la panacea d’ogni male come per anni ci è stato raccontato.
Nel suo discorso, oltre alla trovata propagandistica dei diamanti di Belsito restituiti al popolo padano (dopo un anno ancora non erano stati venduti?), Maroni ha provato a lanciare qualche nuova suggestione di stampo vagamente ambientalista. Ha denunciato ad esempio l’eccessivo consumo del territorio e chiesto una sua maggiore salvaguardia (stando attenti però a non danneggiare gli imprenditori). Ma per strappare applausi di consenso è dovuto tornare anche lui, come un tempo Bossi, a inveire contro Roma che depreda le ricchezze del Nord, a prendersela con la stampa (ormai è uno sport nazionale) e a promettere, tanto non costa nulla e sui militanti più ortodossi fa sempre un certo effetto, che la Padania presto o tardi diventerà uno Stato libero e indipendente. Di soluzioni o rimedi contro la crisi economica nemmeno l’ombra, salvo la perentoria richiesta al governo di rinegoziare con le regioni del Nord guidate dalla Lega, entro e non oltre il prossimo 31 dicembre, il patto di stabilità interno, il fiscal compact e i livelli di pressione fiscale. Ma ad ultimatum mai seguiti da fatti la Lega ci ha abituati sin dal lontano passato.
Quanto all’orgogliosa dichiarazione indirizzata da Maroni ai presenti a Pontida – “La Lega è immortale” – verrebbe da ricordargli che lo pensavano anche i vertici della Dc e del Pci. E si è visto la fine che hanno fatto quando è cambiato il vento della storia.
* Articolo apparso sul quotidiano “Il Messaggero” (Roma) dell’8 aprile 2013.
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