di Alessandro Campi*

Nella Lega, dopo le espulsioni di massa avvenute ieri, siamo ad un passo dalla scissione: a quanto pare Bossi ha già pronto il suo nuovo partito. Nel Pd, che l’infelice e non previsto esito elettorale ha diviso al suo interno e gettato in uno stato di confusione, quella della scissione è invece al momento solo una preoccupazione o una minaccia velata. Potrebbe però diventare uno spettro effettivo o tradursi in realtà se il partito non troverà il modo di compattarsi intorno alle due scelte spinose che l’attendono: chi mandare al Quirinale e quale formula adottare per dare un governo al Paese (larghe intese, governo di scopo o esecutivo di minoranza?).

Due questioni che sono in realtà strettamente connesse: dalla soluzione della prima dipende quella della seconda. Senza tuttavia dimenticare un altro scenario, che anch’esso in parte dipende dal nome che verrà scelto per il Colle e dal tipo di governo che si cercherà di far nascere: quello che prevede la fine anticipata della legislatura e il ritorno alle urne.

Corre voce che nel Pd, dopo la girandola di nomi dei giorni scorsi e per porre un argine ai contrasti, si stia creando una significativa convergenza intorno alla figura di Romano Prodi, indubbiamente di alto profilo politico-istituzionale, quale futuro Capo dello Stato: oltre a Bersani, che ancora ieri ha ribadito di non volere nessun accordo di governo con il Pdl, il professore bolognese sarebbe gradito a D’Alema, ai renziani e agli alleati di Sel. Ma come è noto c’è anche un pezzo di partito che, favorevole alla nascita di un governo di vasta coalizione (che includa Pdl e Scelta Civica e si faccia carico diaffrontare l’emergenza economica), ritiene si debba puntare per la massima magistratura repubblicana su una personalità non platealmente sgradita al centrodestra (ad esempio Franco Marini o Giuliano Amato). Il rischio di uno scontro tra queste due linee, al netto delle ambizioni e dei malumori personali, è in effetti concreto.

A questo punto a togliere le castagne dal fuoco al Pd – o a complicarne i giochi – potrebbe arrivare Grillo. Le cosiddette “Quirilinarie” (e lasciamo perdere la facile ironia sul flop tecnologico del guru di internet, che ha costretto la base grillina a votare due volte) hanno selezionato una rosa di dieci nomi tra cui spicca, per l’appunto, quello di Romano Prodi: da sempre in buoni rapporti con il comico genovese, l’ex presidente del Consiglio è forse l’unico politico italiano di un certo peso che non abbia mai speso una parola di critica nei confronti del M5S quando tutti, anche a sinistra, lo tacciavano di demagogia e populismo.

Se lunedì, come alcuni pronosticano, dovesse essere Prodi il vincitore del secondo turno di voto grillino (e lasciamo perdere che la base elettorale di quest’ultimo sia composta da nemmeno 50.000 persone), divenendo così il candidato ufficiale del movimento, la partita per il Quirinale potrebbe essere ad una svolta: il Pd, compresi i fautori dell’accordo politico e/o di governo con Berlusconi, non potrebbe che votare in modo compatto per il professore bolognese.

Una simile scelta, facilitata o resa ineluttabile da Grillo, a seconda dei punti di vista, sarebbe con ogni evidenza la fine delle larghe intese chieste con tanta forza da Berlusconi e caldeggiate sino praticamente al termine del suo mandato da Napolitano. Ma essa non precluderebbe affatto, come qualcuno può immaginare, alla nascita di un governo Pd-M5S, ancorché guidato da una personalità diversa da Bersani. Si dovrebbe aver capito, infatti, che i grillini non sono disponibili a partecipare ad un governo quale che esso sia: per ragioni identitarie e perché sanno di non avere al loro interno le energie necessarie all’impresa, ma anche perché stare all’opposizione è più comodo e pagante in una fase difficile come l’attuale, specie quando non si hanno ricette o soluzioni di una qualche praticabilità contro la crisi da applicare, ma solo programmi fumosi o slogan ad effetto.

Insomma, Prodi al Quirinale sarebbe un colpo politico a Berlusconi, visti quanto i due si sono combattuti e avversati nel corso degli anni e considerato che il Professore è quanto di più lontano si possa immaginare dal Cavaliere sul piano culturale e persino antropologico, ma potrebbe non risolvere affatto la partita del governo. Se infatti la maggioranza parlamentare per il Quirinale non dovesse replicarsi per Palazzo Chigi ciò significherebbe la perpetuazione dello stallo nel quale ci troviamo, con tre blocchi politici non disposti a collaborare organicamente l’uno con l’altro.

Potrebbe così accadere che Prodi, certo non disposto a spendere un briciolo del suo tempo per un governo di ampia coalizione che includa il Pdl, ma nemmeno disponibile a far nascere un governo a guida Pd senza numeri solidi in Parlamento (per esperienza sa cosa significhi dover dipendere da una maggioranza ballerina), finisca per concedere a Berlusconi, con il quale non si può andare alla guerra per l’intera legislatura, quel che quest’ultimo in realtà più desidera: vale a dire elezioni anticipate.

Un desiderio che forse non è solo del Cavaliere, galvanizzato dai sondaggi che lo danno in testa e pronto dunque a ricandidarsi a premier, come ha spiegato ieri ai suoi sostenitori durante la manifestazione di Bari. Un altro che non vede l’ora di andare al voto (sperabilmente in autunno) è certamente Renzi. E con lui quei settori del Pd – sempre più numerosi – che reputano ormai conclusa la parabola bersaniana e che preferiscono andare alla conta elettorale, stante anche il riflusso nei consensi di Grillo, piuttosto che dover dipendere per i prossimi cinque anni dagli umori ondivaghi di quest’ultimo.

* Articolo apparso sul “Messaggero” del 14 aprile 2013.

 

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