di Fabio Massimo Nicosia
A nostro modo di vedere, il Fascismo ha dovuto affrontare il problema di Otto Neurath, ossia riparare la nave nel corso della navigazione. Vale a dire darsi una teoria compiuta in corso d’opera, non sussistendo una dottrina fascista che fosse tale alle origini del movimento.
Come tutti sanno, nel 1919, a piazza San Sepolcro fu stilato un programma per dir così radical-socialista, sia pure con una particolare attenzione per i reduci e i mutilati di guerra. E anche politicamente i “fasci” si collocavano nel centro-sinistra, propugnando alleanze coi riformisti di Turati.
Poi, fino al 1922, sono successe molte cose, tra cui un biennio rosso che vide Mussolini tutto sommato simpatizzante, almeno fino alla nascita del PCd’I a Livorno nel 1921.
Una scossa si ebbe con l’assassinio di Matteotti nel 1924, che indusse Mussolini ad assumersi la responsabilità politica dell’episodio. Sicché tra il 1925 e il 1927 si assistette all’approvazione delle prime leggi autoritarie, che confluirono nella messa fuori legge di tutti i partiti escluso il partito fascista, destinato a divenire “unico”.
A questo punto si posero una serie di problemi, pratici e politici, ma di notevole spessore teorico. Uno di questi, forse il più interessante, fu il rapporto che doveva intrattenersi tra Partito e Stato.
Sono note, ad esempio, le controversie in sede locale tra prefetti e segretari federali, nonché, a un livello più alto, tra segretario del partito e ruoli di governo.
Mentre il nazismo e il comunismo (gli altri sistemi affiancati al fascismo sotto l’etichetta di “totalitarismi”) avevano esplicitamente risolto il problema ponendo il partito al di sopra dello Stato, nel Fascismo ciò non fu altrettanto chiaro, pur proponendosi come il primo sistema tendenzialmente totalitario conosciuto dalla Storia.
Il Fascismo incardinò nell’apparato statuale financo i rappresentanti di condominio, ma a livello teorico erano le giovani leve imbevute di mistica fascista a premere perché al Partito fosse riconosciuto il primato. E intanto Bottai insisteva che ciascun singolo individuo fosse a sua volta un’espressione organica di uno Stato che tutto ingloba e al quale nulla sfugge.
Intanto, negli anni ’30, l’intercompenetrazione tra Stato e Partito proseguiva, senza che si potesse dire con chiarezza a quale dei due andasse conferita primazia. E al contempo andava avanti la costruzione dello Stato corporativo, la cui teorizzazione può essere anche anti-statalista, dato che significava eliminare poteri al vertice per trasferirli a una pluralità di corpi intermedi che si identificassero sempre più con le dinamiche sociali.
In conclusione, se noi facciamo nostra l’affermazione di Ugo Spirito, per il quale i comunisti non erano altro che fascisti impazienti, una corretta interpretazione del Fascismo, alla quale Mussolini non fece in tempo ad arrivare, è che l’incardinazione di ogni singolo individuo nello Stato o nel Partito (in fondo non fa molta differenza, se non sul piano simbolico), conduce logicamente all’estinzione dell’apparato statuale, essendo invero “Stato” già ciascun singolo individuo isolatamente considerato.
Potrà apparire una interpretazione funambolica, tuttavia, da coerenti seguaci di Feyerabend, per il quale è lecito azzardare anche le teorie più impervie, ci sentiamo di avanzare da parte nostra che il Fascismo, al pari del comunismo, nel momento in cui ambisce a divenire effettivamente “totalitario”, deve incorporare al proprio interno anche la dottrina che lo Stato, nel momento apicale della sua massima espansione, punta alla propria implosione e, quindi, estinzione.
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