di Alessandro Barbano*

C’è nel Paese un pensiero forte che ha elaborato antichi residui ideologici e intransigenze morali e ne ha fatto la nuova religione civile del nostro tempo. Non è un pensiero-partito, poiché non ha un programma politico in senso stretto. I suoi profeti sono per lo più accademici votati alla supremazia di un’élite che maschera, dietro la censura delle manchevolezze altrui, una sottile vocazione antidemocratica.

È un pensiero che arma, senza volerlo strategicamente ma anche senza escluderlo, le illusioni del popolo grillino e di un’ampia anche se non maggioritaria parte dell’elettorato di sinistra e di centro, impedendo il consolidarsi di una moderna cultura riformista. Il suo obiettivo è quello di indebolire la politica mettendola continuamente in mora con istanze radicali, consolidando un movimento civile trasversale ai partiti e portatore di una precisa visione della società. Vale la pena analizzarlo per comprenderne il suo potenziale tecnocratico e autoritario.

È in campo giuridico che questo pensiero gioca la sua sfida decisiva per l’egemonia e ne mostra la faccia giustizialista. In realtà sarebbe un errore ridurre al giustizialismo il suo programma, poiché esso è solo il marketing sociale di un obiettivo più ambizioso: l’idea cioè di un diritto creativo e creatore di norme che oltrepassi i limiti democratici della divisione dei poteri. Un diritto che attraverso il magistero giurisprudenziale intervenga sul piano legislativo a colmare le lacune che la politica ha lasciato per strada e sul piano esecutivo a supplire al deficit dei poteri amministrativi liberamente eletti, sottoponendoli a un sindacato di merito che convalidi, censuri e prescriva atti di carattere politico.

Questa strisciante usurpazione ha una giustificazione suggestiva nello stallo della democrazia, nell’inconcludenza di certe sue procedure, nella cecità di fronte alle emergenze sociali che le si dispiegano attorno, nei particolarismi dei governi locali spesso guidati da interessi discutibili. In realtà ignora o finge di ignorare che la democrazia è strutturalmente imperfetta. Eppure ha nella separazione dei poteri la sua natura e la sua cura omeopatica, l’unica che tolleri.

In campo politico questo pensiero ostenta un’orgogliosa difesa della Costituzione, che in realtà reinterpreta secondo le sue convenienze ignorandone alcune preziose contraddizioni.

Com’è noto, la Carta nacque dalla convergenza di tre anime: una di ispirazione cattolica, una liberaldemocratica e una socialista: ciò le consentì di esaltare la coesistenza dialettica di valori e presupposti in opposizione tra loro, da cui è dipeso lo sviluppo della democrazia in tutto l’Occidente: per esempio il pubblico e il privato, il centro e la periferia, la rappresentanza e la partecipazione diretta.

La religione radicale dei giorni nostri mostra una diffidenza mista a disprezzo per tutto ciò che è privato. Riscrive perciò la Costituzione dandone una lettura statalista, dietro la quale è facile cogliere la preoccupazione di difendere una certa egemonia di stampo baronale, soprattutto in campo culturale. È poi centralista ma vagamente plebiscitaria, non riconosce le autonomie dei territori ma legittima i protagonismi dei movimenti, soprattutto di quelli che è in grado di ispirare e manovrare.

Arriva a invocare un diritto costituzionale di resistenza del cittadino di fronte al degrado delle istituzioni. Questo fu avanzato e proposto da Giuseppe Dossetti nel 1946 nel clima di preoccupazione per la tenuta democratica del dopoguerra, ma fu bocciato dagli altri padri costituenti perché ritenuto potenzialmente eversivo, oltre che inutile. In questa mitologia dello Stato come garante dei cittadini e insieme dei cittadini resistenti allo Stato, l’élite radicale rivela la sua doppiezza allo stesso tempo autoritaria e rivoluzionaria.

Ma è in campo economico che questo pensiero forte dice tutte le bugie che solo le ideologie sanno recitare con sfacciataggine.

Grida allo scandalo del neoliberismo che, è vero, ha accompagnato e anche assecondato la resa della democrazia ai poteri finanziari in Occidente. Omette però di ricordare che nel nostro Paese le cresciute diseguaglianze non sono figlie del neoliberismo ma del blocco sociale prodotto da un welfare appaltato alle corporazioni, anche accademiche, e ai sindacati. Che hanno fermato ogni riforma, anche quelle neoliberiste annunciate da Berlusconi e mai messe in atto. È lo stesso blocco che ha schiacciato la società italiana in un conformismo anestetizzante e l’ha resa più permeabile tanto alle utopie di una ricchezza senza sviluppo e senza doveri pubblici quanto alle vecchie ideologie dei cattivi maestri dei nostri giorni.

C’è da ultimo un equivoco sul primato e sulla retorica di una cultura esibita dai profeti del radicalismo come un vessillo di autenticità, una sorta di marchio dop per coloro che lo detengono. Cioè, se stessi. Senonché la cultura ha una intrinseca caducità che è l’altra faccia della sua vivacità: soggiace cioè all’usura delle idee, alla pigrizia dei privilegi e alla rigidità delle gerarchie.

Niente e nessuno può indefinitivamente definirsi cultura: ci sarebbe perciò da chiedersi quanto la difesa di un’esclusiva pubblica della cultura nasconda la protezione di posizioni e ruoli altrimenti indifendibili.

Il pensiero forte radicale tuttavia prospera e si diffonde come una trascinante fede del presente e come un’utopia del futuro, facendo più arduo il compito della politica di recuperare il suo smalto e difendere la democrazia.

Per contrastarlo occorrerebbe un pensiero altrettanto forte che facesse del dubbio e della tolleranza, della libertà e del pluralismo fondato sul dialogo tra diversi, la sua religione civile. Senza una ideologia liberaldemocratica, fondata sulla separazione e sul rispetto tra i poteri e condivisa come una consuetudine necessaria dai cittadini, non c’è leadership che tenga: domani Berlusconi, Renzi o chi per loro potrebbero al più vincere le elezioni, ma gli sarà poi impossibile governare.

Il bipolarismo è assediato dal populismo perché ha rinunciato a costruire una cultura civile della moderazione, cioè una via moderata all’alternanza. I cattivi maestri lo sanno bene. Perciò non perdono occasione per seminare trappole sul cammino della democrazia.

 

* Alessandro Barbano è direttore del “Mattino” di Napoli. L’articolo è apparso sul quotidiano da lui diretto il 5 maggio 2013.

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)