di Danilo Breschi


Quante volte avete ascoltato, o vi siete posti per conto vostro, la seguente domanda: “ma la democrazia può esistere in realtà? È davvero fatta a misura di uomini e donne?” Rousseau, il padre putativo della democrazia dei moderni, ha scritto: “Se gli uomini fossero angeli noi non avremmo bisogno di alcun governo”. Siccome non lo sono, essi abbisognano di un governo, inteso come sistema di comando loro esterno e infine, e inevitabilmente, coercitivo, poco o molto. E dunque: il governo è necessario, forse un male, ma necessario.

Eppure, il rousseauiano “contratto sociale” era così congegnato da poter configurare qualcosa di molto simile ad una società di angeli, un meccanismo di comando-obbedienza così naturale e interiorizzato da far superare la distinzione tra governanti e governati, perché gli uni sono gli altri, e viceversa e al contempo. La “volontà generale” è in fondo simile allo Spirito Santo del conclave e la decisione in assemblea autenticamente democratica è una fumata bianca che nasce da una unanimità di consensi che concilia non solo gli individui tra loro ma ciascun individuo con sé stesso. È degna di una visione d’artista la risposta che Rousseau forniva a quella sua constatazione originaria, che aveva invece il netto sapore aspro del realismo politico.

“Chi vuole la visione, vada al cinematografo!”, rispondeva stizzito e ironico quel grande maestro di realismo sociologico che risponde al nome di Max Weber, il quale avversava, sì, i profeti della cattedra ma teneva in gran conto i profeti del deserto e della città, ossia il ruolo della predicazione religiosa nella fondazione delle civiltà. Il razionalismo occidentale, peculiarità delle comunità di chi abita questa parte del globo terrestre, è anche figlia di visioni e sogni, come quelle dei profeti del millenarismo cristiano. Una contraddizione in termini? Forse, ma è ciò che ci contraddistingue come occidentali. Contraddistinti da una contraddizione: allitterazione poetica e politica.

Chi abbia dimestichezza con il pensiero politico nordamericano sa bene quanto l’idea di democrazia, ovvero di popolo sovrano, che governa sé stesso da sé e per sé, debba enormemente al mito biblico di un patto originario tra Dio e l’Uomo. In tali termini scriveva, ad esempio, Thomas Paine, protagonista della lotta per l’indipendenza americana con il suo pamphlet “Common Sense”, che vendette circa 100.000 copie nei soli primi tre mesi dalla sua uscita, gennaio 1776.

La democrazia come combinazione alchemica di “senso comune” e “visione profetica”. Ecco perché senza senso del futuro, senza coltivazione della speranza, la democrazia deperisce; perché il sogno che resta è quello esclusivamente rivolto al passato, nostalgia o senso di colpa. Il sogno di uomini e donne liberi ed eguali che convivono in pace, persino in cristallina armonia, è alla base della democrazia, piaccia o no alla teoria politica più sobria e seriosa. Ma, se risaliamo alle origini del pensiero democratico, questo troviamo. Rousseau, Paine e, ancor prima, certo puritanesimo politico.

Pensiamo a quanto l’ulteriore democratizzazione della società americana debba alla predicazione visionaria di un Martin Luther King, al suo sogno reso pubblico a Washington il 28 agosto del 1963. Un sogno che prendeva le mosse da un precedente sogno coltivato religiosamente e politicamente, tradottosi nella Dichiarazione d’Indipendenza redatta per gran parte da Thomas Jefferson. Un sogno che portò Martin Luther King a dire parole che meritano lunga citazione: “E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. […] Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere […] Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza”.

Un sogno, una visione, che ricorrono con elevata frequenza nella tradizione culturale americana che ha parlato di democrazia più come opera d’arte che come teoria politologica, una tradizione sempre intrisa di Sacre Scritture e di poesia, da Ralph Waldo Emerson a Henry David Thoreau, da Hermann Melville a Walt Whitman. Tradizione democratica che non ha trascurato i rischi insiti nell’assolutezza di un principio, sia pure quello della volontà popolare. Non di rado ha esaltato la lotta nonviolenta e identificato il male nella cieca obbedienza, nella volontà di imitazione ed omologazione.

Non è forse un caso che per parlare di democrazia si ricorra con più efficacia alla poesia che alla filosofia, a meno che quest’ultima non sia opera di un poeta prestato alla politica, com’è il caso di Rousseau, annoverato sovente tra i precursori del Romanticismo. Ciò denota il cuore della teoria democratica, la sua forza e la sua debolezza, da sempre. La sua forza risiede in quel che è la sua debolezza agli occhi del realismo politico, non sempre quello più accorto e saggio: la visione di un futuro di armonia, conciliazione degli opposti, rimozione degli impulsi di possesso, distruzione e morte. Una generale libido pervade l’umanità democratizzata, dal momento che il potere è “del” popolo, “per” il popolo, e non ha alcuna provenienza esogena, essendo “dal” popolo. La democrazia allo stato puro rende ragione del neoromanticismo di Herbert Marcuse, anche se nel suo caso – Lucio Colletti seppe coglierlo appieno – l’avvenire è meno importante di un passato mitizzato e nostalgicamente rivendicato.

Nelle vene della democrazia scorre il sangue dell’eguaglianza, ed è questa la sostanza del suo sogno. Un individualismo capace di convivere in simbiosi, fusione mistica, con la piena espressione delle facoltà di ognuno, senza prevaricazioni, senza processi di gerarchizzazione. Nessuno meglio degli artisti, poeti, romanzieri e cantanti ha saputo dar conto di questo contenuto onirico, precipuo ingrediente della teoria democratica, vero e proprio sguardo proiettato in un futuro e in un luogo tutto da costruire grazie all’impeto di un cuore nutrito di religiosità, ovvero di spirito rigoroso e rigenerativo, di una disciplina votata al bene, in un animo previamente depurato di ogni opacità maligna.

Prendiamo così gli artisti, i più genuini tra i quali sono anche i più visionari, i maggiormente scollegati dal tempo e dal contesto in cui vivono. Arte e utopia, arte e democrazia; democrazia come utopia? Torna dunque l’interrogativo iniziale. D’altronde non era il grande bardo d’America, Walt Whitman, a cantare sé stesso intonando i seguenti versi: “Io proferisco la password primigenia, Io mi firmo nel segno della democrazia. / Per Dio! Non accetterò nulla di cui tutti non possano avere l’equivalente negli stessi medesimi termini”? E in altro suo componimento leggo: “Vieni, renderò indissolubile il continente. / Creerò la più splendida razza su cui il sole si sia mai posato, creerò divine terre magnetiche, / con l’amore dei compagni, / con l’eterno amore dei compagni. / […] Per te tutto questo da me, o Democrazia, per servirti mia signora! Per te, per te io innalzo questi canti”.

L’Ottocento è il secolo della democrazia ancora senza aggettivi, allo stato un po’ brado, avrebbe detto ogni saggio repubblicano federalista americano di quei tempi, una democrazia ancora scissa dal liberalismo, dal costituzionalismo, qualcosa quindi ben diversa da ciò che abbiamo sperimentato nella seconda metà del Novecento europeo. Qualcosa già con germogli in terra americana. L’Ottocento, almeno la sua prima metà, è pure il secolo del Romanticismo, e non è del tutto fuori luogo parlare dell’originaria matrice romantica della moderna teoria della democrazia.

Non stupirà allora riascoltare i versi di Patti Smith che nel 1988 cantava la sua “People Have the Power” e trovarvi ribadita l’origine onirica della democrazia. Ascoltando Patti sembra quasi che nella sua voce potente risuonino “il maschio e la femmina” che Whitman voleva osannare in quegl’inni alla vita che compongono la celebre raccolta “Foglie d’erba”. Da un secolo all’altro, da un bardo all’altro della terra d’America e del suo sogno democratico. Canta Patti Smith: “Stavo sognando nel mio sognare / […] / Mi svegliai per gridare / che il popolo ha il potere / per redimere l’opera dei folli / …. / è ormai decreto: / il popolo comanda!”.

E, proseguendo nell’ascolto, sembra quasi di sentire circa due secoli dopo l’eco dei versi sublimi del poemetto incompiuto di Samuel Taylor Coleridge, quel “Kubla Khan” il cui titolo è anche “Visione in un sogno”, guarda caso. Una visione un po’ oppiacea, secondo alcuni critici, ma che sola sa descrivere Xanadu, la città ideale, luogo “selvaggio, sacro e incantato” ma senza alcuna imperfezione, dove ciascun essere umano può trovare la vita eterna “bevendo il latte del Paradiso”.

Da Coleridge a Smith: “Dove c’erano deserti / ho visto fontane / l’acqua sgorgava come crema / e noi andavamo a spasso là assieme / e non c’era nulla di cui ridere o da criticare / e il leopardo / e l’agnello / dormivano assieme realmente abbracciati / io speravo nella mia speranza / di riuscire a ricordare quello che avevo trovato / io sognavo nei miei sogni / Dio sa cosa! / una visione ancor più pura / fino a che non ho ceduto al sonno / Affido il mio sogno a te”. È questo “potere di sognare, di governare” ad essere rivendicato ad un certo momento della storia occidentale, a cavallo tra le due sponde dell’Atlantico.

Si giunse a “credere” che “tutto quello che sogniamo / può farci arrivare alla nostra unione / noi possiamo ribaltare il mondo / noi possiamo dare il via alla rivoluzione sulla terra / noi abbiamo il potere / il Popolo ha il potere”. Si giunse a credere, e a lottare e a volersi farsi ascoltare, infine a imporsi, in nome di questo credo. Profeti, poeti e cantori sono croce e delizia della democrazia, teoria che si trova più a suo agio con l’anima artistica che con la ragione politica. Ogni ripensamento della teoria democratica che sia all’altezza dei nostri tempi di deficit democratico, di crisi della rappresentanza, di oligarchie e finanza, dovrà passare dalla cruna dell’ago delle Muse.

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)