di Alessandro Campi*

Si celebra oggi il “Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice” (è questa l’esatta e completa dizione della ricorrenza). Il giorno scelto dalla legge che nel 2007 ha istituito la celebrazione – il 9 maggio – è quello dell’assassinio di Aldo Moro, avvenuto nel 1978 (anche se all’epoca si discusse sulla possibilità di adottare come data il 12 dicembre, in ricordo della strage milanese di piazza Fontana del 1969).

E’ controverso e oggetto di discussione il valore simbolico-pedagogico di tali commemorazioni: rese obbligatorie dal calendario civile e perciò a rischio di risolversi, secondo alcuni, in cerimonie formali ad uso delle istituzioni e dei loro rappresentanti, poco sentite e partecipate dai cittadini e dall’opinione pubblica. Senza contare, secondo altri, un rischio ulteriore, che è quello di estendere oltremisura il significato di tali celebrazioni, sino a renderlo generico o del tutto retorico: nel nostro caso, ad esempio, la tendenza che si segnala, storicamente impropria, è a comprendere tra le vittime del terrorismo anche i caduti per mano della mafia.

La memoria, come si sa, è sempre privata, individuale, parziale, selettiva, sovente fuorviante, tanto più con riferimento a eventi del passato particolarmente tragici e luttuosi, di quelli destinati a pesare per decenni sulla coscienza di un’intera nazione. La pretesa di volerne costruire una collettiva o comune, che sia per così dire ufficiale, oggettiva e incontrovertibile, se da un lato obbedisce ad un intento politicamente nobile, quello della pacificazione civile che non annulli tuttavia le responsabilità degli individui e non equipari le ragioni e i motivi che ne hanno guidato le azioni sanguinose, dall’altro contrasta con il nostro bisogno di comprendere la storia sulla base di categorie rigorose, senza intenzioni edificanti e in una forma per quanto possibile globale e articolata. Se ricordare è un dovere civile e farlo in forma solenne spesso serve ai singoli per compensare il dolore e l’ingiustizia che si è stati costretti a subire, analizzare e spiegare è invece un bisogno al tempo stesso politico e intellettuale, che serve ad una comunità per riflettere sui propri errori e per evitare di ripeterli.

Nel caso dei terrorismi italiani (quello rosso, quello nero e quello praticato o favorito dai servitori infedeli dello Stato) il difetto che ancora oggi scontiamo non è di memoria, ma appunto di storia. Non ci mancano i racconti e le rievocazioni degli “anni di piombo” in una chiave soggettiva e impressionistica, ne abbiamo anzi sin troppi, o le inchieste e gli approfondimenti giornalistici su singoli episodi e vicende. Ci manca invece una narrazione complessiva di quelle vicende: delle molteplici cause – ideologiche, sociali, politico-istituzionali e geostrategiche – che le hanno determinate e di come esse si inseriscano, eventualmente, nel continuum della storia nazionale. Così come non difettano i documenti e le cosiddette prove, come sostiene chi spera che l’abolizione del segreto di Stato possa offrirci nel futuro chissà quali rivelazioni (i segreti più tenaci sono quelli che non nascondono nulla): basti pensare ai materiali d’ogni natura accumulati a tonnellate nel corso di anni di lavoro dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo e dai tribunali che hanno giudicato gli autori di attentati, delitti e fatti di sangue. Ci manca invece il quadro interpretativo d’insieme, difetta la capacità di mettere in ordine quei documenti e quelle prove, di inserirli in un quadro intellettuale coerente.

La letteratura sull’Italia degli anni Settanta e Ottanta, basta andare in libreria, è in effetti immensa. Nel corso degli anni si è accumulata una produzione che è però in gran parte memorialistica e dunque forzatamente parziale: a quella, largamente reticente e autoassolutoria, proveniente da ex-terroristi ed estremisti (di destra e di sinistra) delle diverse generazioni si è aggiunta, con il trascorrere del tempo, quella dei magistrati e degli uomini di Stato che li hanno combattuti, quella dei pochi politici che hanno trovato il tempo di riflettere su quegli anni e, infine, quella spesso struggente dei famigliari delle vittime. Ma tutti questi testi e lavori, magari singolarmente pregevoli per le prospettive di lettura che aprono, rappresentano appunto spezzoni di memoria destinati fatalmente a giustapporsi e ad elidersi. Le altre forme espressive che si sono misurate con la stagione della violenza politica – il cinema, la narrativa, la saggistica militante – a loro volta non sono riuscite ad evitare la tentazione del ripiegamento intimistico e sentimentale, del giustificazionismo ideologico o generazionale, dell’indulgenza spacciata per perdono, della rimozione selettiva degli aspetti umanamente più scabrosi del terrorismo e della violenza.

Il libro che inaugurò la storiografia scientifica sul fascismo fu scritto da Renzo De Felice appena vent’anni dopo la caduta di Mussolini, nel 1965, mettendo fine al profluvio memorialistico (soprattutto di marca fascista) che aveva caratterizzato l’immediato dopoguerra. Trenta-quaranta anni sono invece passati dalle stragi e dall’acme dell’attacco terroristico allo Stato e siamo ancora qui ad organizzare doverose cerimonie ufficiali sulle quali però continua ad aleggiare il fantasma di quegli anni: che non riusciamo a lasciarci alle spalle per il semplice fatto di non averli adeguatamente compresi. E dunque ancora ci chiediamo, sollecitati dalla cronaca di queste ore, quale sia stato il ruolo di Andreotti nella vicenda Moro, ancora paventiamo in modo incosciente il rischio di manovre nuovamente torbide contro la democrazia italiana (lo ha fatto ieri Grillo con lo stile allusivo che era diventato nel corso degli anni la specialità di Cossiga), ancora temiamo un ritorno della violenza sociale e dell’estremismo a causa della crisi economica e dell’instabilità politica che tanto fanno somigliare l’Italia di oggi a quelli di ieri.

All’epoca delle polemiche sul caso Battisti, il presidente Giorgio Napolitano commentò la decisione del Brasile di non concedere l’estradizione all’ex terrorista con queste amare parole: “non siamo riusciti, istituzioni, politica, cultura ed espressioni civili, a far comprendere cosa abbia significato per noi la vicenda del terrorismo”. Ma si può spiegare ad altri quello che evidentemente non siamo ancora riusciti a spiegare a noi stessi?

* Apparso come editoriale su “Il Mesaggero” (Roma) del 9 maggio 2013.

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