di Damiano Palano

«È un errore credere che i partiti moderati di tutti i paesi non abbiano futuro. Finché ci saranno persone che possono permettersi il lusso dell’indifferenza, ci saranno anche i moderati. Di costoro si dice che sono abbastanza saggi da restare nel mezzo. In realtà vi restano perché sono sazi abbastanza. Sono protetti da ogni parte perché mantengono rapporti con tutti. Avversari decisi non sono, e non hanno». Non è certo difficile ritrovare un nitido riflesso dello Zeitgeist del primo dopoguerra in questo attacco ai partiti moderati, pronunciato dal protagonista di un racconto incompiuto di Joseph Roth. Si trattava in effetti solo di una variante del risentimento verso il sazio «borghese» che, in quegli stessi anni, trasudava abbondante dalle pagine di Ernst Jünger, e che in fondo pervadeva il clima degli anni di Weimar. D’altronde, nella Germania degli anni Venti proprio i partiti moderati si trovarono di fatto a pagare i costi politici di una crisi economica e politica che mutò per sempre il volto della società tedesca, e che preparò il crollo del fragile regime democratico. Perché progressivamente, elezione dopo elezione, in poco più di un decennio lo spazio del ‘centro’ – lo spazio occupato dai partiti moderati – venne riducendosi, fino a diventare irrilevante e impotente dinanzi alla marcia inarrestabile della polarizzazione ideologica e politica.

Nelle scorse settimane, in molti hanno fatto ricorso a un’analogia fra l’instabilità della Repubblica di Weimar e la situazione che contrassegna oggi il crepuscolo della Seconda Repubblica italiana. Certo un simile accostamento non può che apparire quantomeno poco appropriato, perché gli anni Venti furono certo – in Germania e in Austria – un periodo di formidabili stravolgimenti sociali e di instabilità politica, ma furono anche segnati da un’eccezionale effervescenza culturale, artistica, intellettuale. Un’effervescenza che rende quella stagione forse unica nella storia del Novecento, e sicuramente molto distante dal grigiore deprimente del dibattito culturale contemporaneo. Può forse risultare consolante il fatto che un tale fervore intellettuale – che ci induce a cercare proprio in quel breve torno di tempo molti dei grandi maestri del Novecento – abbia alla fine prodotto la barbarie nazista. Ma è probabile che la decadenza culturale contemporanea non sia un motivo di cui rallegrarsi particolarmente, e che non costituisca un baluardo difensivo poi così inespugnabile per quelle tendenze che minano alla base le nostre democrazie. E non è neppure detto che l’assenza della violenza dalla scena politica – un elemento che senza dubbio distanzia la società odierna da quella degli anni Venti e Trenta – offra garanzie affidabili di un fausto decorso della crisi.

Al di là di tutte le differenze, che possono essere legittimamente segnalate, ci sono in effetti alcuni importanti elementi comuni tra Weimar e l’Italia odierna. Analogie cui vale la pena prestare la dovuta attenzione, non tanto per suggerire che la conclusione debba essere la stessa (anche perché persino i più agguerriti critici del Movimento 5 Stelle hanno qualche comprensibile esitazione ad accostare Beppe Grillo ad Adolf Hitler e Gianroberto Casaleggio a Joseph Goebbels). Quanto per riconoscere che si tratta di una crisi che dipende da un insieme di fattori strutturali, e in cui sono destinati ad aprirsi spazi fino a pochi mesi fa addirittura impensabili per una effettiva disgregazione del quadro consolidato delle nostre democrazie. E non è allora affatto sorprendente che molti osservatori abbiano iniziato a interrogarsi sui rischi che la situazione odierna presenta, e che abbiano cominciato a prendere sul serio l’ipotesi di una possibile deriva anti-democratica o post-democratica Naturalmente – ed è chiaro a tutti – gli effetti che la crisi economica sta producendo sull’Italia, per quanto gravi, non sono paragonabili all’impatto che la ‘mobilitazione totale’ della Prima Guerra Mondiale e l’inflazione dei primi anni Venti ebbero sulle società tedesche e austriache. Ma certo si tratta di una modificazione che non può essere sottovalutata, sia perché costituisce il punto terminale di un decennio di stagnazione (che per molti territori italiani è stato segnato dalla deindustrializzione e dalla scomparsa di settori produttivi con profonde radici), sia perché appare sempre più evidente a chiunque come la politica appaia impotente a fornire risposte minimamente adeguate.

Per quanto la democrazia non sia mai apparsa in buona salute, e nonostante anche negli anni Cinquanta e Sessanta non mancassero previsioni allarmate, che ne paventavano minacce fatali, è piuttosto scontato che oggi proliferino i saggi sulla ‘crisi’ della democrazia, sul suo progressivo esaurimento, sulla soppressione dei suoi principi. E, in effetti, è sufficiente dare una scorsa alla novità della saggistica per avere una conferma – quantomeno indiretta – dell’allarme con cui tende a essere percepito il contemporaneo «disagio» della democrazia. Anche se le prospettive da cui viene affrontata la questione sono tra loro molto differenti, come d’altronde le ‘ricette’ che vengono suggerite per superare lo stallo. In questa letteratura che va accumulandosi negli scaffali delle librerie, un esempio significativo è senza dubbio rappresentato da Democrazia vendesi. Dalla crisi economica alla politica delle schede bianche di Loretta Napoleoni (Rizzoli, Milano, 2013, pp. 246, euro 14.00). Naturalmente, il pamplhet di Napoleoni non ha ambizioni scientifiche, perché si tratta di un testo di agile divulgazione, se non addirittura di una sorta di piccolo manifesto politico. Ma le sue tesi vanno liquidate semplicisticamente, solo perché l’autrice non può essere pineamente accreditata fra la comunità professionale degli economisti, o perché i suoi lavori concedono spesso più di qualche pagina al sensazionalismo. Il precedente pamphlet di Napoleoni, Il contagio, pubblicato nell’estate del 2011, prevedeva d’altronde quello che di lì a poco sarebbe avvenuto, e cioè non solo la tempesta finanziaria scatenata sull’Italia, ma anche quella sorta di rivolta contro la classe politica che le urne hanno certificato. E questo testimonia quantomeno una sensibilità nel cogliere il mutamento climatico. C’è però un motivo in più per considerare il suo ragionamento. Napoleoni – che, vale la pena ricordarlo, ritiene che i Piigs debbano rinegoziare il loro debito – si rivolge infatti soprattutto all’impalcatura dell’Unione Europea. In sostanza, nega che l’Ue favorisca il perseguimento dell’interesse dell’intero Vecchio continente, e sostiene che l’unione monetaria abbia favorito alcuni paesi, in primis la Germania, e sfavorito altri paesi, soprattutto quelli dell’Europa meridionale, compresa la Francia. Naturalmente Napoleoni non ritiene che questo obiettivo stia stato scientemente perseguito dalle élite europee, o da qualche circolo filo-tedesco capace di agire all’oscuro delle opinioni pubbliche. Si tratta, secondo il suo ragionamento, del risultato imprevisto di una serie di misure di cui – un po’ per ingenuità, un po’ per la cieca fiducia riposta nelle virtù del mercato – non si erano valutate adeguatamente le possibili conseguenze.

Più specificamente, Napoleoni riprende e adatta al contesto dell’Ue lo schema adottato della vecchia teoria neo-marxista della dipendenza, una teoria elaborata negli anni Cinquanta e Sessanta soprattutto per illustrare i meccanismi di dipendenza economica del Sud del mondo nei confronti delle economie industriali avanzate. In termini molto semplificati, secondo questo schema lo sviluppo delle transazioni economiche internazionali non innescano semplicemente relazioni di interdipendenza: le relazioni sono spesso di dipendenza, nel senso che alcune aree centrali conservano risorse di potere maggiori rispetto ad altre, le periferie, caratterizzate da processi produttivi obsoleti e dalla produzione di beni a scarso valore aggiunto. Napoleoni adotta però questo schema per considerare le relazioni fra i membri dell’Ue. Se in passato gli squilibri in termini di produttività fra i paesi europei erano compensati dalla facoltà per gli Stati con economie più deboli di svalutare le loro monete, l’introduzione della moneta unica ha posto fine a questa possibilità. Gli Stati con moneta forte, come soprattutto la Germania, si sono trovati così con una moneta più debole, che ha reso conseguentemente le loro merci più appetibili sul mercato europeo (in un momento peraltro cruciale, in cui iniziava a crescere il potenziale asiatico). Al tempo stesso, gli Stati con monete tradizionalmente deboli, come l’Italia, si sono trovati con una moneta più forte, che certo dava qualche vantaggio (tra cui la possibilità di accedere al mercato del credito con tassi molto bassi rispetto a quelli precedenti), ma anche uno svantaggio consistente, ossia la necessità di dover concorrere in modo diretto con le esportazioni tedesche: «La moneta unica europea», argomenta Napoleoni, «ha infatti reso il Made in Germany più competitivo nel mondo e soprattutto all’interno di Eurolandia, da sempre il mercato di sbocco primario per tutti gli Stati dell’Unione. Lo ha fatto sia, per l’appunto, bloccando il meccanismo di rivalutazione e svalutazione della moneta, sia creando una nuova distribuzione del lavoro all’interno dell’Ue a favore delle economie forti. […] si tratta degli stessi meccanismi di egemonia e dipendenza che si verificano nel classico processo di colonizzazione» (p. 33).

Non è questo l’unico meccanismo cui Napoleoni imputa la crisi odierna, e l’autrice di Democrazia vendesi non dimentica infatti di menzionare i meccanismi con cui in Italia viene accumulato, nel corso degli anni Ottanta, l’enorme debito pubblico che ancora oggi grava sulle casse dello Stato. Non trascura neppure il fatto che la Germania, nel corso del processo di riunificazione Novanta, riesca a mantenere basso il costo del lavoro ricorrendo in sostanza a una sorta di ‘delocalizzazione’ interna (e alla creazione di un mercato del lavoro secondario). E, infine, non sottovaluta l’impatto che hanno avuto i finanziamenti di Bruxelles ai paesi economicamente deboli, finanziamenti che – come è avvenuto soprattutto in Grecia – hanno incoraggiato un progressivo spostamento della forza lavoro dai settori manifatturieri (come la cantieristica) al terziario. Così gli effetti, secondo Napoleoni, diventano quelli di una sorta di nuova colonizzazione interna: «Il fallimento dell’Unione è tutto qui, nel non aver previsto e legiferato meccanismi di riequilibrio del vantaggio finanziario dei Paesi forti, che avrebbero invece dovuto essere alla base di una vera Unione Europea, basata su principi di coesione e collaborazione solidale. I cittadini però non ne sono al corrente, a loro è stata venduta un’immagine falsa, ideologica, idilliaca. Dalla Thatcher fino a Sarkozy o a Mario Monti, politici, tecnocrati ed eurocrati usano intelligentemente i media per proiettare una visione della realtà internazionale carica di positività ma purtroppo intessuta di menzogne. Qualche verità inizia però a trapelare, si comincia a far notare che già ai tempi della caduta del Muro di Berlino l’industria della periferia era in netto declino, mentre quella teutonica stava per avere la sua seconda spettacolare fioritura. Solo adesso, dopo tre anni di contrazione economica, a poco a poco, nella mente degli abitanti della periferia si sta facendo strada l’idea di essere le vittime di una nuova colonizzazione. […] Il cannibalismo economico che abbiamo descritto avviene tutto all’interno dell’‘asse del bene’, di un’istituzione che ha usato l’integrazione economica e monetaria per porre fine alle guerre fratricide europee, nel cuore del capitalismo occidentale» (p. 47).

Il pamphlet di Napoleoni – è opportuno ricordarlo – non è affatto antieuropeista. Piuttosto, mette in luce come il maldestro disegno della moneta unica abbia prodotto conseguenze colpevolmente sottovalutate. E proprio per questo le pagine più vibranti di Democrazie vendesi suonano come una sorta di circostanziato atto d’accusa contro le élite europeiste, contro quelle classi dirigenti che hanno spinto, tra la fine degli anni Ottanta e il principio degli anni Novanta, per un’accelerazione del processo di integrazione e per quelle che, nel corso di un ventennio, non hanno minimamente messo in questione le premesse originarie, nella convinzione che, tutto sommato, le crisi siano il modo migliore per ‘costringere’ i resistenti popoli europei a fare quei ‘sacrifici’ indispensabili per una reale unificazione. E, in questo senso, vale comunque la pena di leggere – anche solo per prenderne le distanze – i ritratti che Napoleoni dipinge di alfieri della causa europea, come Mario Monti, Romano Prodi e Mario Draghi, campioni del conflitto d’interesse e protagonisti di molti di quei grandi processi di cambiamento che, giudicati con l’occhio del tempo, ci appaiono oggi come clamorosi abbagli, se non addirittura – a voler sospettare – come ben congegnati inganni. Ma non è probabilmente questo il principale motivo di interesse del libro di Napoleoni, che consiste invece nella capacità di prefigurare il riemergere di un conflitto che avevamo dato per esaurito.

In effetti, quando Napoleoni mette in fila, una dopo l’altra, tutte le conseguenze negative prodotte dall’euro non fa che dare una veste nobile a ciò che un po’ tutti – o quantomeno l’«uomo della strada» – pensano da tempo. Napoleoni legittima cioè quell’insieme di affermazioni, spesso triviali, che mille volte abbiamo sentito risuonare dal momento in cui la moneta unica ha fatto la sua comparsa, e cioè che l’euro ha innescato un aumento dei prezzi dei beni di consumo, una riduzione dei salari reali e dunque un impoverimento degli italiani. Conseguenze che, combinate con l’aumento della pressione fiscale registrato nell’ultimo ventennio, proprio per rispettare i criteri stabiliti dal Trattato di Maastricht, hanno finito con l’assottigliare i risparmi delle famiglie e col dilatare, contestualmente, la massa del debito privato. Ma, al tempo stesso, Napoleoni riesce a individuare, se non un ‘colpevole’, quantomeno un ‘vincitore’, la Germania, e dei ‘perdenti’, i paesi dell’Europa meridionale. E, per di più, questo ragionamento – che in larga misura funziona, ed è sostanzialmente incontestabile (anche se in parte unilaterale) – non viene svolto per legittimare una posizione ‘sovranista’, nazionalista o xenofoba. Ma viene proposto in nome di quegli ‘indignati’ che da qualche anno a questa parte percorrono le piazze europee reclamando la cacciata di classi dirigenti corrotte e incapaci, ossia in nome di una componente che tradizionalmente siamo abituati a classificare come espressione della sinistra radicale. E, probabilmente, è questo il segnale più interessante su cui porre l’attenzione.

Molto probabilmente, la contrapposizione su cui Napoleoni si sofferma – la contrapposizione fra una sorta di nuovo centro ‘imperialista’ e una periferia ‘colonizzata’, fra una Germania ‘vittoriosa’ e un Sud ‘sconfitto’ – è in effetti destinata a tramutarsi, nei prossimi anni, nella contrapposizione fondamentale della politica europea. Nonostante sia chiaro che i responsabili della crisi odierna non sono soltanto i tecnocrati europeisti, e che una componente di responsabilità assai maggiore spetti alle classi politiche nazionali, il nuovo euroscetticismo finirà col costruire una tentazione formidabile per quegli elettori che vogliano davvero lasciare ‘protestare’ contro le politiche di austerità, contro l’impoverimento, contro la crescente imposizione fiscale. Anche perché una revisione sostanziale del quadro dell’unione monetaria non pare al momento sollecitata, o persino ipotizzata, da nessuna delle forze politiche più rilevanti oggi al governo nei paesi membri dell’Eurozona. La retorica dell’opposizione al ‘nuovo imperialismo’ tedesco – che le pagine di Napoleoni prefigurano, pur nella consapevolezza dei problemi che essa comporta – rischia di diventare un elemento capace di ridefinire il quadro consolidato della competizione politica. E, in questo quadro, le elezioni italiane del 2013 (come quelle greche del 2012) possono davvero apparire solo come un primo segnale di uno smottamento destinato a travolgere le tradizioni politiche persino più resistenti.

Se la debolezza delle vecchie famiglie ideologiche – e in primo luogo di quella socialista – può infatti essere salutato come un dato positivo per i più convinti sostenitori della necessità di superare le ideologie, il crollo degli argini identitari può produrre conseguenze imprevedibili, e tra queste non si può escludere che vi sia anche l’ascesa di nuove configurazioni ‘nazionaliste’, o semplicemente ‘sovraniste’. In altre parole, è possibile che il progressivo sfaldamento delle vecchie demarcazioni identitarie, oltre che della distinzione fra destra e sinistra cui siamo abituati, non produrrà quella nuova identità europea che molti hanno retoricamente invocato nel corso degli ultimi due decenni. Piuttosto, non è da sottovalutare l’ipotesi che possa preludere allo sviluppo di nuove polarizzazioni organizzate proprio attorno alla contrapposizione fra centro e periferia, fra le istanze del Nord e quelle del Sud.

Ovviamente, non è detto che previsioni tanto sinistre siano destinate ad avverarsi, e non è affatto scontato che i risentimenti nazionalisti debbano insidiare il progetto europeista. Ma sarebbe quantomeno miope liquidare tendenze di questo genere come spettri del passato, che non si rassegnano a morire del tutto. Perché è davvero piuttosto credibile nei paesi del Nord debba aumentare la diffidenza nei confronti del Sud, e che contemporaneamente, in Grecia, Italia e Spagna (oltre che, va da sé, persino in Francia), possa attecchire una facile retorica anti-tedesca. E perché, in presenza di questa miscela esplosiva, non è affatto da escludere che la strada che conduce alla tanto sospirata Terza Repubblica debba alla fine condurci dalle parti di Weimar.

 

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