di Simone Ros
Qualche mese fa, prima delle tragiche e controverse elezioni italiane, mi ero soffermato sui vizi e le virtù dei governi di coalizione, un vero e proprio marchio di fabbrica della Repubblica austriaca. La dinamica non è quella bizantina e schizofrenica della Seconda Repubblica (come dimenticare il caravanserraglio che resse il secondo gabinetto Prodi per due soli agonizzanti anni) né quella imperniata sul bilancino dell’ormai leggendario Manuale Cencelli, totem della Prima. Come già ricordato più volte, l’attuale esecutivo è un prodigioso miracolo di equilibrismo tra due componenti costituzionalmente antitetiche: i socialisti del cancelliere Werner Faymann e i cristiano-popolari del vice Michael Spindelegger. Ad una divisione strategica dei ministeri rilevanti, corrisponde paradossalmente una mal dissimulata competizione tra le due punte di diamante del gabinetto, leader dei rispettivi partiti: in poche parole, malgrado la convivenza, sia Faymann sia Spindelegger aspirano alla poltrona di Cancelliere, che verrà rimessa in palio a fine settembre. Le somiglianze con l’attuale assetto italiano sono, a prima vista, incredibili. In passato mi ero limitato a paragonare l’outsider Frank Stronach al nostro immarcescibile Cavaliere, rilevando in entrambi la roboante retorica del self-made man, la concezione padronale del movimento politico da loro fondato, l’insofferenza per i lacci e laccioli della politique politicienne. Mai avrei potuto ragionevolmente pensare che il “modello viennese” sarebbe stato esportabile nella torrida Roma degli Orazi e dei Curiazi, del Caimano e del Giaguaro, delle auspicate “larghe intese” quirinalizie e della temuta sindrome da inciucione. Una tale campagna elettorale all’arma bianca, ennesimo round di un conflitto ventennale che ha assunto toni quasi antropologici, reclamava un governo di riscatto e di riappropriazione, soprattutto dopo la controversa pausa dei tecnici e il sonno della politica.
Inutile ricordare in questa sede che la politica è altresì l’arte del possibile e che lo strano governo Letta-Alfano non è forse molto più insolito dell’ormai leggendaria strana maggioranza a cui dovette la sua esistenza il salvifico governo Monti. Soprattutto se visto da Vienna, capitale della Grosse Koalition quasi permanente. In molti hanno citato l’idillio obbligato tra socialdemocratici e CDU all’epoca del primo governo Merkel e si è persino vociferato di una richiesta di consigli formulata dal neo-premier Letta alla Cancelliera di ferro. Sarebbe però altamente ingeneroso trascurare un esempio di Grosse Koalition appena al di là delle Alpi, tanto più in un momento così delicato come gli ultimi mesi prima delle sospirate elezioni parlamentari. Se la Berlino austera e luterana di Frau Merkel appare lontana anni luce dalla Roma post (o neo?) democristiana dell’imberbe Letta, è dunque stimolante volgere lo sguardo alla Vienna del duo Faymann-Spindelegger: una ruspante (ma ingrigita) sinistra “bersaniana” coniugata ad un Grande Centro cattolico e filo-imprenditoriale.
La vicinanza tra la travagliata Italia della crisi e l’Austria Felix della più bassa disoccupazione giovanile d’Europa non è un mero trucco retorico. Il famoso storico inglese Tony Judt, autore nel 2005 del poderoso e straordinario Postwar (pubblicato nel 2007 da Mondadori con il poco evocativo titolo Dopoguerra), individuava sin dal periodo postbellico un’insopprimibile affinità: entrambe “vittime” della Germania hitleriana (con tutte le dovute cautele), entrambe “condannate” alla pacificazione nazionale. Alla storica decisione del comunista Togliatti di incanalare il proprio partito nell’alveo della dialettica democratica (depotenziando gli istinti rivoluzionari al rango di esercizio retorico) corrisponde dunque, al di là delle Alpi, la scelta strategica di erigere una Grosse Koalition a trazione social-popolare, soluzione che reggerà in pianta stabile dal 1947 al 1966, associando un ministro degli Esteri socialista ad un Cancelliere obbligatoriamente popolare. Judt è caustico: la stabilità andava assicurata a qualunque prezzo, pena la scorrere del sangue in un’ Europa ancora prostata e sfinita dal massacro appena concluso. Roma optò per la Grosse Koalition cristallizzata nel CLN, dalla quale solo in seguito vennero espulse le forze di sinistra; Vienna seppellì senza rimpianti le macerie della Prima Repubblica prebellica che, nonostante la Costituzione elaborata da Kelsen, si era ingolfata nello scontro all’arma bianca tra socialdemocratici e cristiano-sociali. La Roma repubblicana di De Gasperi guardava con sdegno al Ventennio mussoliniano, vissuto dai Padri della Patria dall’altra parte della barricata, in esilio o in ritiro forzato. A Vienna la situazione era più sfumata: il predominio dei cristiano-sociali, alfieri dell’Austria cattolicissima e rurale, aveva soffocato l’anomalia della Vienna “rossa” sfociando in una dittatura bigotta e iperconservatrice, guidata prima da Engelbert Dollfuss (assassinato nel 1934 su istigazione di Hitler) e poi da Kurt von Schuschnigg (che consegnerà, suo malgrado, il paese al Führer nel 1938). Gli eredi dei socialdemocratici pronti alla rivoluzione (e che spesso auspicavano l’unione con la Germania anche fuori tempo massimo, dopo il fatidico 1933) e dei cristiano-sociali che l’avevano attuata (ma in direzione contraria) sono quindi i fondatori della Seconda Repubblica: compromesso permanente, coalizione costante, suddivisione semi-legalizzata. La traduzione plastica della pacificazione nazionale è infatti la famigerata Proporz, essenza del modus vivendi austriaco: secondo l’efficace sintesi di Judt, il tandem governativo veniva di conseguenza accompagnato dalla lottizzazione partitocratica della pubblica amministrazione. Lo storico è sferzante: il famigerato “sistema italiano” a dominio democristiano (come dimenticare la fulminante denuncia del lussureggiante “sottogoverno” in Todo Modo di Elio Petri?) non ha nulla da invidiare all’algida ed inscalfibile Proporz austriaca. Anche l’Austria è corrotta, conclude Judt, ma a modo suo.
Visto da Vienna, il governissimo Letta-Alfano appare quindi come un legittimo compromesso, l’inevitabile prodotto di uno scontro senza vincitori né vinti. Interpretato secondo la stringente logica di Tony Judt, è un ulteriore segnale della spesso trascurata vicinanza tra Italia e Austria. Avviso ai deprecatori di inciuci e ai nemici di ogni inaccettabile collusione col “nemico”: la guerra tra partiti di governo, all’ombra del Duomo di Santo Stefano, è serrata e brutale, senza esclusione di colpi. Nessuna narcotizzazione delle opposte tifoserie, nessun accomodamento o rilassamento delle posizioni: a settembre si combatte, per vincere. Se l’afasico PD sarà in grado di ricostruire una leadership salda e autorevole e il PdL si libererà finalmente dalla difesa d’ufficio del proprio padre-padrone, niente impedirà loro di governare (ora e in futuro) insieme o di vincere in solitaria. Senza crisi di coscienza e biliose prove di forza, accettando la necessità dettata dall’emergenza. La Grosse Koalition non è un ipocrita valzer di cortesie, ma la sinfonia eseguita da due orchestre avversarie.
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