di Alessandro Campi
Nella storia dell’Italia repubblicana, la categoria della “guerra civile”, il punto supremo della discordia e della violenza per una comunità politica, ciò che può contribuire a fondarla ma anche a distruggerla definitivamente, è stata una sorta di tabù politico-storiografico. A considerare una lotta fratricida lo scontro tra fascisti e partigiani consumatosi nel biennio 1943-45 sono stati per decenni soltanto i primi, gli sconfitti di quello scontro, mentre invece per i secondi, i vincitori, si doveva parlare piuttosto di una guerra di liberazione dallo straniero tedesco e dai suoi sgherri in camicia nera.
Si riteneva che la memoria pubblica ufficiale dell’Italia democratica non potesse sopportare lo scandalo di essere nata da una contesa sanguinosa tra due minoranze ideologizzate sostenute, come in tutti i conflitti di questa natura, da forze militari esterne. Le guerre civili – dalle quali sono nati la gran parte degli Stati contemporanei, ivi comprese solide democrazie come quelle statunitense, britannica e francese – in effetti hanno questo in comune: si combattono in modo virulento, si concludono con un cambio di regime che implica per solito un atto di pacificazione o di clemenza (dei vincitori nei confronti dei vinti), vengono rimosse dalla memoria collettiva per almeno un paio di generazioni, divengono infine oggetto di valutazione e ricostruzione critica quando si ritiene che gli odii e le passioni che le hanno attizzate siano stati definitivamente sopiti.
Sennonché dalla ritrosia a parlare di guerra civile con riferimento ad una fase della nostra storia nazionale che si faticherebbe a definire altrimenti (e c’è voluto uno storico di sinistra coraggioso e intellettualmente onesto come Claudio Pavone per legittimare l’espressione nella discussione pubblica italiana), siamo passati ad un uso di questa formula, che per definizione è ricca di pericolose implicazioni e porta con sé un simbolismo sinistro, a dir poco disinvolto. La si è retrodata al nostro Risorgimento a proposito della repressione del brigantaggio meridionale, la si è applicata al “biennio rosso” e agli anni che prepararono l’avvento al potere del fascismo, la si è utilizzata per descrivere la stagione degli anni di piombo e del terrorismo, la si è evocata come minaccia con riferimento al secessionismo leghista, la si è infine richiamata come categoria interpretativa per raccontare le vicende di Tangentopoli e lo scontro ventennale che ne è seguito tra berlusconiani e antiberlusconiani.
A proposito di quest’ultimo, il governo Letta, nella lettura politica che ne hanno dato sin dal suo sorgere soprattutto Berlusconi e il centrodestra, avrebbe come suo storico obiettivo proprio la pacificazione tra destra e sinistra e la fine del clima di opposizione frontale che ha caratterizzato l’intera Seconda Repubblica. Si dimentica che le guerre civili, quelle vere non quelle figurate o evocate per amore di dramma, non si risolvono con il disarmo contestuale dei combattenti e un gesto concertato di pubblica concordia: la pacificazione presuppone sempre la vittoria di una delle due parti. Berlusconi, che ancora ieri ha descritto come un conflitto intestino all’ultimo sangue la sua battaglia politica contro la sinistra, si ritiene lo sconfitto o il trionfatore di tale conflitto? Vuole essere perdonato o intende perdonare? Vuole l’oblio per le sue colpe o per quelle commesse dai suoi nemici?
L’impressione, lasciando stare la cattiva abitudine dei politici italiani di ricorrere a metafore e immagini retoriche che rischiano poi di sfuggire di mano, come spesso capita agli apprendisti stregoni, è che si spaccia per guerra civile l’incapacità che destra e sinistra, gli attuali Pdl e Pd, hanno dimostrato nel governare l’Italia sulla base di un serio programma di riforme quando ne hanno avuto, alternativamente, la possibilità.
In questo ventennio, sia chiaro, non sono mancati i colpi bassi, le accuse e gli insulti, i cortocircuiti istituzionali e i conflitti tra poteri, anche virulenti. Non sono mancati, nei due campi, gli esagitati e i seminatori di discordia mossi dalla spregiudicatezza o da un desiderio di purezza ideologica (vedi, esempio di queste ore, il capogruppo del Pd Luigi Zanda che pur essendo una personalità mite predica l’ineleggibilità di Berlusconi senza nemmeno calcolare l’effetto delle sue parole). Ma il caos nel quale siamo da ultimo precipitati, al netto della crisi economica, è stato largamente dovuto, non all’esistenza di contrasti incomponibili che hanno finito per paralizzare le istituzioni e la politica, ma a partiti che non hanno mai assunto una fisionomia netta, che non hanno mai espresso un autentico rinnovamento nelle idee e nei comportamenti, che sono nati facendo sorgere larghe speranze nel Paese e sono invece rimasti l’uno (il Pdl) una formazione di stampo padronale, l’altro (il Pd) una federazione di oligarchie sopravvissute al crollo della Prima Repubblica.
Se alle ultime elezioni milioni di italiani hanno smesso di avere fiducia in tali partiti, e si sono rifugiati o nell’astensionismo o nel voto a Grillo, non è perché erano stanchi di combattere alla baionetta contro i propri concittadini schierati sull’altra sponda, non è perché erano desiderosi di un gesto di riconciliazione collettiva dopo un ventennio di conflitti, ma perché non ne potevano più delle loro parole al vento, della loro inconcludenza e delle loro ruberie a danno della collettività. Una comunità politica non ha da temere dai conflitti e dalle divisioni, anche profondi, che l’attraversano e la rendono viva, ma dal finto unanimismo e dall’immobilismo dei suoi gruppi dirigenti. Il che significa che da Letta, dal suo governo e dalla sua fragile maggioranza parlamentare non c’è da aspettarsi che ponga fine ad un’immaginaria guerra civile, permettendo ai fratelli-nemici di due decenni di stringersi finalmente la mano, ma che faccia poche e concrete cose nell’interesse del Paese, che adotti qualche provvedimento urgente per risollevarne l’economia, che restituisca dignità e fiducia alla politica praticando l’arte della buona amministrazione. Pdl e Pd, che la necessità e la paura hanno spinto a collaborare, hanno un programma minimo di cose da fare insieme? Bene, che lo realizzino. Piuttosto che invocare l’oblio sulle divisioni del passato, si eviti piuttosto di attirarsi la condanna dei cittadini per l’ennesima prova di insipienza e di irresponsabilità che si rischia di offrire.
Commento (1)
frank
buona analisi, ma il governo letta non risolverà nessun problema, anzi peggiorerà la situazione come ha fatto il governo monti