di Danilo Breschi
Vi ricordate la leggenda dell’apprendista stregone? Molti di voi avranno visto da piccoli, o rivisto da grandi, l’episodio del film Disney “Fantasia”. Basato sull’omonima ballata scritta da Goethe nel 1797, riprende un antichissimo racconto di Luciano di Samosata. Nel film d’animazione della Disney, Topolino è il giovane apprendista dello stregone Yen Sid, che, in assenza del suo maestro, prova alcuni trucchi magici, ma non sa come controllarli. Il tema è esattamente quello della ballata goethiana, dove si racconta di uno stregone che, prima di assentarsi dal suo studio, raccomanda al giovane apprendista di fare le pulizie. Quest’ultimo si serve di un incantesimo del maestro per dare vita a una scopa affinché compia il lavoro al posto suo. La scopa continua a rovesciare acqua sul pavimento, come le è stato ordinato, fino ad allagare le stanze. Ci vorrebbe una parola magica per spezzare l’incantesimo, ma, non sapendola, l’apprendista non trova di meglio che spezzare la scopa in due e così raddoppiarla, aumentando l’inondazione. Fortunatamente il ritorno del maestro rimette a posto le cose. La morale della ballata è nota a tutti e l’espressione “apprendista stregone” è ormai proverbiale: indica una “persona irresponsabile che applica metodi che non è poi in grado di padroneggiare, col rischio di provocare danni irreversibili per tutta la collettività”.
Quanti apprendisti stregoni si aggirano da molto tempo negli spazi pubblici della penisola, trasmessi via tv o in diretta streaming! L’Italia è assordata da un profluvio di notizie, che non sono tanto e solo cattive notizie, quanto e piuttosto notizie cattive, nocive, inquinanti e intossicanti la mente e il cuore di una cittadinanza a cui si iniettano dosi giornaliere di veleni e rancori. Notate come la cronaca nera sia debordata dai propri confini e quanto la cronaca politica sia rappresentata con toni e stilemi propri della nera. Drammatizzazione e colpevolizzazione, al limite della criminalizzazione, degli attori del proscenio politico, cui vengono affibbiate maschere da golosi antropofagi in una terra desolata quale sarebbe ormai l’Italia della crisi economica e della disoccupazione dilagante. La realtà è quanto mai dura, ma il raccontarla pubblicamente comporta una responsabilità, comunque, lo si voglia o no. E allora occorre fare attenzione al modo, avere senso della misura e della proporzione, contestualizzare e comparare.
Per tacere di tanti altri canali e programmi televisivi, prendiamo una trasmissione come “Quinta Colonna”, condotta su Rete 4 da Paolo Del Debbio e introdotta settimanalmente dall’editoriale di Mario Giordano: è la messa in scena del populismo nella sua forma più plateale, e per questo anche carnevalesca, a suo modo simpatica, se solo non si pensa alla delicatezza dei temi che intende trattare. Più si ascoltano gli abbozzi di ragionamento “in parole povere”, e perciò decantati come “democratici” e a favore della “gente”, che vengono espressi in trasmissione, e più la mente rotola giù fino allo stomaco e al più basso ventre. Di un’opera di delegittimazione a 360 gradi del sistema politico e sociale esistente “Striscia la notizia” è invece la divulgatrice più potente ed efficace, anche perché fa da anni milioni di ascolto ogni sera ed agisce al livello sottocutaneo della satira qualunquistica e apparentemente leggera e trasversale. Se aggiungiamo “Le Iene” di Italia Uno, oltre ad una pletora di programmi di “approfondimento” (?) più saltuari e meno seguiti, possiamo dire che le berlusconiane reti Mediaset contribuiscono in misura e con efficacia formidabile a convincere sempre più che tutto il male sta da una parte, tutto il bene dall’altra, e che nessuna istituzione che non sia un inviato col microfono, meglio se vestito con tuta bizzarra e variopinta e sorriso beffardo, merita credibilità e fiducia. Messaggio: è tutto una risata e quindi tutto da seppellire, o magari da lasciar così com’è perché almeno si ride (contrappasso conservatore della denuncia satirico-populistica). “Striscia” compensa in parte questo manicheismo mostrando quanta illegalità sia diffusa e praticata anche tra la società civile, e così corregge un po’ il tiro e articola il ragionamento in senso critico, anche se la tendenza resta quella populistica.
Ma che sto facendo? Non criticherò mica la satira, invocando, più o meno subdolamente, censure e divieti? E il mio liberalismo, allora? No, nessuna censura, solo constatare che la satira è diventata il modus cogitandi e il modus operandi, il modo di pensare e il modo di agire della stessa comunicazione politica che si vuole demofila e democratica. E questo ha delle conseguenze. Quali? Difficile dirlo con certezza d’analisi scientifica, ma è indubbio che tutto ciò che si propone in tv e in rete – ovvero i due mezzi maggiormente utilizzati per l’informazione e la trasmissione di notizie di natura politica – si declina a mo’ dei programmi che abbiamo sopra elencato.
Il dissenso è il sale della democrazia che si voglia anche liberale, e dunque non mutilata. Ci mancherebbe altro! Ma quel che fa specie del clima politico e culturale odierno è l’indiscriminata imputazione e condanna senza se e senza ma, senza distinzione e raziocinio, dell’alto da parte del basso, quella sorta di auto-assoluzione collettiva della società civile rispetto ad una classe politica eletta a capro espiatorio. Un clima da caccia alle streghe infervorato dai tribunali mediatici su cui si assidono novelli tribuni del popolo, autoproclamatisi tali in nome del moralismo, ovvero del modo più facile e utile per avere consenso, ovvero audience e ascolti. Per fare affari d’oro. Dare una valutazione morale, ci ricorda il sociologo Raymond Boudon, non richiede alcuna competenza particolare, mentre la capacità di comprendere “presuppone una concezione oggettivistica della conoscenza”. Non solo: “se un giudizio morale incontra la sensibilità di un particolare pubblico o se si conforma a dogmi che uniscono le persone che circolano in alcuni ambienti intellettuali particolarmente influenti, può essere molto vantaggioso anche dal punto di vista materiale“. Resta da chiedersi chi abbia creato quell’alto in un contesto che, fino a prova contraria, è di democrazia rappresentativa consolidata, magari mai compiutamente legittimata se non dall’erogazione a getto continuo di soldi pubblici spesi quali ammortizzatori (e non “incentivanti”) sociali.
Ecco che una colpa forse ce l’ha il capro espiatorio oggi in voga: non avere più quelle risorse pubbliche da spendere in deficit per accontentare nuove generazioni in fermento, esattamente come accadde tra anni Sessanta e Settanta. La risposta alla domanda “chi ha mandato l’alto lassù” è: il basso. Dalla società civile alla società politica, questo il tragitto, elezione dopo elezione, durante la Prima Repubblica, primo tempo di un sistema politico che vive ancora oggi il suo secondo tempo o i supplementari. Un primo tempo in cui, verso la metà degli anni Settanta, Dc (quella del “Belzebù” Andreotti), Pci (dei miliardi di rubli provenienti dalla totalitaria Urss) e Psi (già all’epoca “forchettoni nazionali”, ben prima dell’ascesa di Craxi) rappresentavano i 4/5 dell’elettorato nazionale. Nel 1974, tutte e sette le formazioni storiche della Prima Repubblica, Msi compreso, totalizzavano il 98% dei voti.
Assoluzione o rimozione dei limiti e dei guasti della Prima Repubblica? Nient’affatto, ma un semplice invito a riflettere sul manicheismo odierno che contrappone il Popolo buono al Principe cattivo. Sa tanto di favola a cui tuttavia molto si crede, così tanto da far pensare di avere non una cittadinanza matura e attiva, ma un popolo bambino, o che si finge puerile per mascherare con il vittimismo la propria malafede. Quella degli adulti che dovrebbero raccontare ai più giovani dove e cosa sono stati quando avevano la loro età, e la protratta, consapevole e compiaciuta corresponsabilità con quella partitocrazia che non è certo nata da venti o trent’anni. E, nel raccontarlo, far capire che c’erano condizionamenti e vincoli, anzitutto di natura internazionale, che fecero imboccare alla nascente repubblica italiana una stretta e ardua strada sulla via della democratizzazione. Scelte obbligate, in parte, scelte volute, dall’altra, ma sempre con il beneplacito di un elettorato che garantiva una presenza alle urne non lontana dal 100% ad ogni nuova tornata elettorale. Nessun’altra nazione europea come l’Italia. Una partecipazione massiccia, anche, e non solo, perché si stava bene, tutti, o moltissimi, ben pasciuti da baby pensioni (riconosciute dal 1973 al 1992, con ancora oltre 500.000 fruitori che costano oggi allo Stato circa 9,5 miliardi di euro all’anno), e poi scala mobile, assunzioni senza controllo nel settore pubblico, premi e assegni aggiuntivi ad libitum, ecc. ecc. Tutto regalato dall’alto, sì, ma spesso chiesto e preteso dal basso. E qualcuno poi si meraviglia del debito pubblico attuale.
Ricordo più di una conversazione ascoltata in treno durante il pendolarismo dei miei anni universitari. Primissimi anni Novanta. Un anno prima che scoppiasse Tangentopoli. Due viaggiatori che discorrevano con ironia di Andreotti, all’epoca presidente del consiglio (sarebbe stata la sua ultima volta a Palazzo Chigi). Ne sottolineavano la scaltrezza, l’assenza di scrupoli, anche, ma col tono di chi riconosceva nella furbizia una virtù invidiabile, secondo un costume tipicamente italiano, plurisecolare. La differenza con questa nostra ultima generazione di italiani che paiono mossi da purezza e intransigenza morale, e dunque presunta virtù iperdemocratica, è che ad essa non è toccata la pioggia dall’alto di risorse pubbliche calate per tacitare gli appetiti legittimi di una società civile che in larghi strati è stata da sempre abituata alla sovvenzione e all’ancoraggio presso il pubblico. E allora ci vorrebbe un po’ più di pudore e moderazione, pur nella severità di analisi e giudizio dello status quo.
Se solo oggi Letta & C. avessero a disposizione la spesa pubblica dei bei tempi andati! Qualcuno lo spera come ancora possibile, e allora via a gridare l’immediata uscita dall’euro! Torniamo alla sovranità nazionale di un tempo e al libero e bello deficit spending! Ma oggi incombe invece la spending review. A noi grilli ci tocca far le formiche. Ma guarda te! La rabbia generazionale è anche comprensibile, non v’è dubbio.
In un recente intervento sul suo blog, il Grillo dei grilli ha scritto: “La sensazione di essere circondati, “calpesti e derisi” dal Potere Costituito che sta muovendo ogni leva a sua disposizione per distruggere il M5S in effetti la si sente nell’aria. Un che di pesante, di torbido, annuncio forse di fatti gravi. Mentre l’opera di accerchiamento continua, un altro accerchiamento però avviene intorno al Potere Costituito. Sono i cittadini italiani la cui rabbia conosce bene chiunque frequenti un bar o una pubblica via”.
Ammettiamolo, è bravo a scrivere, quasi un poeta. Niente di più bello e suadente della poesia al potere, niente di più pericoloso se non controbilanciato: commistione da politica estetizzante, al potere nell’Europa tra le due guerre. Beppe Grillo: un apprendista stregone che si guardò allo specchio e vide alle sue spalle una pletora di altri apprendisti che l’avevano preceduto e ora l’accompagnavano. E un coro si levò dalla curva degli ultras in direzione dell’arena: “Dagli al politico! Dagli alla Casta! Ma sì, dagli anche al Parlamento, al governo e alle istituzioni tutte! Ripartiamo da zero, tanto sono solo macerie!” e via col pollice verso. Prima o poi arriva la raccolta di una pluriennale semina di grandine. Ed il frutto è la tempesta.
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Max Joseph
“Le lobbies pagano senatori e onorevoli”. Uno stipendio fisso, che varia a seconda dell’emendamento da votare. A lanciare la denuncia è stato un assistente parlamentare di Palazzo Madama, intervistato dalle Iene in un servizio andato in onda domenica sera. “Chi sa qualcosa farebbe bene a denunciare questi comportamenti gravissimi”, è stato l’immediato commento di Pietro Grasso, presidente del Senato, che ha subito precisato di “fornire agli inquirenti nel più breve tempo possibile tutte le informazioni che riterranno utili alle indagini”.
Un sistema rodato, con un tariffario preciso, che andrebbe avanti da anni. Non usa mezzi termini il portaborse che nel servizio delle Iene racconta a Filippo Roma come multinazionali abbiano a libro paga senatori e onorevoli. “Ci sono le multinazionali – racconta l’assistente con la voce contraffatta che ha chiesto di rimanere anonimo – che ogni mese per mezzo di un loro rappresentante fanno il giro dei palazzi, sia al Senato che Camera: incontrano noi assistenti e ci consegnano dei soldi da dare ai rispettivi senatori e onorevoli”. Sempre secondo la fonte anonima, l’obiettivo sarebbe chiaro: “Quando ci sono degli emendamenti da votare, i senatori e gli onorevoli votano a favore della categoria che paga”. E il tutto seguendo un prezziario ben definito. “Per quel che mi riguarda – continua l’assistente – conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un’altra nel settore dei videogiochi e slot machine. Entrambe elargiscono 1.000 euro e 2.000 euro ogni mese”. La tariffa non è sempre uguale perché dipende, ovviamente, dall’importanza del senatore. Nel caso si tratti di un inquilino molto influente di Palazzo Madama, l’importo lieviterebbe fino a 5mila euro. La fonte anonima parla anche delle sale Bingo e di come si sarebbero formati due gruppi, “partecipati sia da uomini del centrosinistra che da uomini del centrodestra”. Un gruppo farebbe capo a due ex ministri, in questo caso “entrambi del centrosinistra”.
Una bomba sganciata sul Parlamento, in un momento non certo facile per quanto riguarda i costi e i malcostumi della politica, al centro di severe critiche soprattutto da parte dell’opinione pubblica. Il presidente del Senato, comunque, ha annunciato che non lascerà cadere queste dichiarazioni nel nulla: “Dalle anticipazioni giornalistiche in merito al servizio delle Iene su deputati e senatori che, nelle scorse legislature, sarebbero stati pagati da multinazionali per operare modifiche favorevoli ai disegni di legge in discussione – si legge in una nota diffusa da Palazzo Madama – emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo”. C’è da dire che la forma anonima delle rivelazioni – l’assistente per non farsi riconoscere nel servizio televisivo è di spalle e indossa un cappello – non facilita eventuali denunce. “Purtroppo – continua la nota – la natura di denuncia, anonima della fonte e nei destinatari, rende difficile procedere nell’accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura”.
Insomma, le lobby che pagano la casta. E i politici fanno quello che vogliono. Le Iene, infatti, hanno mandato in onda anche un altro servizio che racconta come la maggior parte dei parlamentari paghi in nero i suoi assistenti. Molti “portaborse” prenderebbero, a quanto si riferisce nel servizio, 800 euro in nero al mese, pur avendo il regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. “Il 70 per cento dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni”, racconta un altro assistente parlamentare, sempre in forma anonima, aggiungendo come stia lavorando in nero da circa dieci anni e di essere stato “sia assistente di un senatore di destra che di uno di sinistra”. Come dire, lo sfruttamento del lavoro è bipartisan. “All’interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. E’ questo il vero problema”, commenta il questore del Senato, la grillina Laura Bottici. In Italia, in buona sostanza, il Parlamento fa le leggi che tutti devono rispettare, tranne i parlamentari. Un paradosso assolutamente nostrano.
frank
classica visione da conservatore dello status quo che vede e giudica le idee diverse come eretiche e pericolose, intrisa del classismo che vuole che la massa delle persone soffra e non goda del benessere
Danilo Breschi
“frank” (?): “conservatore dello status quo”, intollerante delle “idee diverse” e “classista” che vuole che le masse soffrano? Però!
Mi chiedo se talvolta, o più che talvolta, si legga quel che si vuole leggere – e non quel che c’è scritto – un po’ per la fatica della messa in moto del pensiero, un po’ per poi, più o meno anonimamente, dire quel che da sempre e per sempre si vuol dire. Ed è, la mia, una domanda retorica, ovviamente.
frank
non so per chi mi ha scambiato, io nemmeno la conosco, ho semplicemente digitato su google “riviste di politica” e ho trovato questo sito che reputo comunque interessante e lo stesso suo articolo è interessante anche se non lo condivido.
l’attaccare grillo è ormai divenuto sport nazionale, io vorrei che si riflettesse sul fenomeno grillo come sintomo della crisi di legittimità delle democrazie rappresentative, che non rappresentano più gli interessi dei tanti, tra le tante cose che grillo dice (molte altre sono slogan che nemmeno io condivido) c’è ne è una importante: archiviare i partiti e giungere a forme di democrazia diretta. è questa la direzione, bisogna prenderne atto.
Danilo Breschi
Non l’ho scambiata con nessuno, mi chiedo solo se non sia sempre più corretto e leale firmarsi nome e cognome quando si vogliono esprimere leciti ma anche sferzanti giudizi di merito e valore. Il mio punto interrogativo era per dire: frank, chi? Come se io mi firmassi “danny” (?)…
Quanto alle Sue osservazioni di carattere politico, mi permetto di aggiungere: ben prima di Grillo le democrazie rappresentative sono in crisi di legittimità, per tutta una serie di fattori che non sarà certo la democrazia diretta a risolvere per stati nazionali, o comunità politico-territoriali, includenti dai 50 ai 100 milioni, e oltre, di abitanti-cittadini.
Introdurre “forme di democrazia diretta” come i referendum propositivi può stimolare un certo senso di appartenenza alle istituzioni, e conseguente partecipazione, ma non è affatto detto che quest’ultima sia automaticamente attiva e consapevole. Il rischio di eterodirezione resta anche con i referendum, specie se derubricati a plebisciti più o meno mascherati. L’introduzione di forme di democrazia diretta può essere dunque un aiuto in questa fase di crisi delle democrazie rappresentative ma non è certo la panacea, e senz’altro non è un rimedio privo di controindicazioni e immediatamente risolutivo, o anche solo ricostruttivo della partecipazione politica “qualitativa” (la quantità si addice alla demagogia, non alla democrazia liberale; serve invece qualità nella cittadinanza democratica).
La democrazia liberale è costruzione complessa e articolata, che richiede di perseguire in simultanea vie istituzionali-costituzionali, culturali, economiche e sociali, e soffre di qualsiasi scorciatoia. Come, ad esempio, sarebbe l'”archiviazione” dei partiti, proprio quello strumento senza cui le masse rischiano di restare amorfe e docili strumenti nelle mani di oligarchie autoreferenziali (vedasi l’Ottocento europeo). Che si usi poi un clic o touch del proprio IPhone, tablet o pc non migliora la situazione né elimina rischi e pericoli, anzi.
Riformare, anche drasticamente, sì, archiviare, no. Farebbe solo gli interessi di demagoghi e capipopolo, e la storia italiana del primo Novecento ci insegna che alla contestazione radicale dei partiti può facilmente subentrare il partito unico fattosi Stato che vuole proprio un popolo monolitico ed uniforme, non articolato in una pluralità di “parti” portatrici di interessi e valori differenti.
Senza partiti trionfa il paternalismo statalista (fascismo). Con partiti che “occupano” le istituzioni pubbliche spartendosi il denaro pubblico, trionfa ancora il paternalismo statalista (“partitocrazia assembleare”). Con partiti giuridicamente riconosciuti e vincolati come qualsiasi associazione pubblica a rendicontare entrate e spese e inseriti in un meccanismo di alternanza al governo, con quest’ultimo decisore e investitore delle risorse pubbliche solo e soltanto in alcuni settori della vita associata, forse cominceremo ad assomigliare ad altre liberaldemocrazie contemporanee. Tutt’altro che perfette, perché umane, ma assai più funzionanti in termini di ricettività, efficienza ed efficacia nelle risposte ai cittadini-elettori. Ma bisognerebbe che il Parlamento non tenesse in ostaggio gli esecutivi, li controllasse solo affinché operino entro i limiti della Costituzione, e per questo occorre tornare a parlare di riforme costituzionali, vecchia storia ma non per questo ancora e sempre necessaria.
Risposta lunga, la mia, ma lunga e faticosa è la via che può condurre a risolvere (parte della) crisi di legittimità cui Lei accenna.
Cordialmente,
Danilo Breschi
Max Joseph
La mossa del PD di voler impedire ai movimenti di partecipare alle elezioni pero’…. e poi la notizia sopra?
Allora che facciamo? continuiamo fiduciosi la “retta” via (che poi retta non e’)?
Ho visto recentemente uno speciale molto interessante sugli anni ’80… vi consiglio di vederlo se potete su National Geographic… e’ incredibile come la storia moderna sia a volte meno conosciuta di quella passata. Ovviamente sull’Italia non c’era assolutamente NIENTE ed era incentrato per lo piu’ sugli Stati Uniti, che del resto hanno dettato molti degli attuali usi e costumi dei giorni d’oggi in tutto l’Occidente (e non solo).
Ebbene, persino Ronald Regan ando’ a Berlino dicendo “Mr Gorbaciov, Tear Down This Wall!”…. certi “movimenti” avevano un sapore di vera condivisione tra il popolo, tra i cittdini… forse c’era piu’ ingenuita’, ma il legame di certi movimenti non lo si vede piu’… pensate a Tanianmen o anche a semplici movimenti che volevano la fine della guerra fredda e l’inizio di un dialogo…
Tanto del benessere e tanta della democrazia di cui tutti oggi noi godiamo vengono anche dalla storia recente, senza necessariamente andare a ripescare episodi di secoli fa..
Tutto questo per dire: a volte certi cambiamenti d’impatto sono necessari, a volte si deve veramente rischiare, cercare di riscrivere e di destabilizzare quello che cerca di rimanere al suo posto, che tenterra’ in tutti i modi di apparire come normalita’ dell’essere.
Non auspico violenze, a dire il vero per quanto mi concerne il paese Italia puo’ andare dove preferisce, pero’ oggettivamente l’italia dovrebbe cambiare…
come ha scritto un recente storico: «Ci vorrà certamente un gesto nuovo, spettacolare e simbolico per scuotere la sonnolenza, scrollare le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini» .
Si chiamava Dominique Venner, si e’ sparato oggi un colpo in bocca davanti all’altare di Notre Dame in segno di protesta contro la nuova legge sulle nozze Gay…
condivisibile o meno, sano o meno di mente, sicuramente un gesto di “altri tempi”….
Max Joseph
comunque per “assordare” un paese ci vuole qualcuno che ascolti…
con questa massima vi do la buona notte.
frank
Io continuo a pensare invece che bisogna pensare a forme di democrazia diretta, il referendum non risolve il problema è non è una soluzione, ma forse un primo passo. Per essere sincero secondo me c’è bisogno di una deglobalizzazione sia economica che politica. le decisioni devono essere prese a livello locale di comunità, magari creando anche confederazioni, dando a parlamento e governo nazionale solo pochi poteri di coordinamento ma assolutamente eliminando i partiti che sono ora oligarchie che rispondono a poteri superiori e incontrollabili dai cittadini, e i capopopoli sono proprio all’interno dei partiti(berlusconi,renzi etc). in fondo si sono archiviati da soli, nessuna riforma secondo me li renderà migliori, perchè hanno perso il contatto con la realtà e difficilmente sapranno rilegittimarsi agli occhi dei cittadini, del partito c’è rimasto solo il nome, sarebbe giusto cominciarli a chiamarli lobby o circoli privati
Max Joseph
(AGI) – Roma, 6 giu. – Macche’ governo a termine, tantomeno per volonta’ del Quirinale: l’esecutivo-yogurt (come era stato definito quello guidato da Enrico Letta) non esiste in natura, figuriamoci se esiste in politica. Giorgio Napolitano fa partire nella tarda mattinata una puntuta nota di precisazione, a voler sgombrare il campo da ulteriori fraintendimenti. Per lui a termine casomai (qui fa fede il video postato sul sito della Presidenza della Repubblica, al quale Napolitano stesso rimanda) e’ il fatto che i partiti protagonisti del bipolarismo debbano per sempre agire stretti nel vincolo delle larghe intese. Bisogna fare allora le riforme – e qui di nuovo la scadenza c’e’, ed e’ tra 18 mesi con un tagliando da staccare tra 12 – e fare secondo uno scadenzario esatto. Non e’ un caso che proprio oggi salgano al Quirinale per presentarsi ufficialmente i 35 componenti della commissione chiamata ad imbastire la nuova struttura costituzionale. Un primo passo sul cammino tracciato dal Quirinale, e sul quale Napolitano intende insistere in tutti i prossimi mesi.
Nel breve periodo, comunque, prevale un certo fastidio per alcuni titoli di giornali, ma non solo. Tanto che, nella sua precisazione, Napolitano non manca persino di fare nomi, cognomi e testate. “Si continua ad accreditare il ridicolo falso di un termine posto dal Presidente della Repubblica alla durata dell’attuale governo”, tuona, “E cio’ nonostante quel che egli aveva gia’ detto in proposito la sera del 2 giugno ai giornalisti presenti in Quirinale e che dal giorno seguente figura sul sito della Presidenza della Repubblica”.
“Sarebbe un fatto di elementare correttezza tenerne conto e non insistere in una polemica chiaramente infondata”, conclude il Quirinale, e chi ha orecchie per intendere intenda. Il Presidente del Consiglio, da parte sua, ha gia’ fatto capire di non escludere una permanenza fino addirittura alla fine naturale della legislatura, se ce ne saranno le condizioni. Anche qui il messaggio e’ chiaro.
Ma questa gente e’ fenomenale! Yahooooo!