di Michele Marchi
L’Italia oltre ad essere stata, come ben descritto da Pietro Scoppola, una “Repubblica dei partiti”, è stata anche una “Repubblica della Guerra fredda”. Questa è una delle numerose tesi sviluppate da Antonio Varsori nel suo recente volume L’Italia e la fine della Guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (1989-1992), Il Mulino, 2013.
L’opera scientifica di Antonio Varsori non necessita di presentazioni, trattandosi di uno dei più prestigiosi e rigorosi storici della politica estera italiana e dell’integrazione europea.
La prima peculiarità del volume è di natura metodologica, dato che Varsori affronta per la prima volta in maniera praticamente esclusiva (lo aveva solo in parte accennato nel bel volume sull’europeismo italiano edito da Rubbettino nel 2012, La Cenerentola d’Europa) la cosiddetta “storia del tempo presente”. Conduce cioè la sua indagine con gli strumenti analitici dello storico delle relazioni fin dentro alle vicende ancora non sedimentate e spesso dominate dalla polemica politica e giornalistica, tratta insomma gli anni del cosiddetto “crollo della Prima Repubblica”. Da questo punto di vista si inserisce dunque in quel filone di studi che conta già una serie di recenti contributi, tra gli altri di Crainz, Gervasoni e Colarizi, Mammarella e ancora più di recente Gentiloni Silveri. Lo fa però con due peculiarità fondamentali e da non trascurare. Da un lato cercando di incrociare piano della politica interna con quello della dimensione di politica europea ed internazionale. Dall’altro potendo contare su un saldo approdo archivistico, consistente nell’immenso archivio Andreotti, da alcuni anni depositato presso l’Istituto L. Sturzo di Roma e oggi, almeno in parte, consultabile.
Si è detto in apertura dell’Italia come “Repubblica della Guerra fredda”, ma non tanto e non solo nel senso che lo scontro politico nel Paese sia stato influenzato dalla contrapposizione ideologica tra i due blocchi e che la cosiddetta conventio ad excludendum si sia consolidata a seguito della scelta occidentale della Dc e dei legami con Mosca del Pci. Se la teorizzazione si limitasse a questo non costituirebbe una grande novità. Lo sguardo di Varsori è innovativo nel momento in cui studia la politica estera del VI e VII governo Andreotti, dall’estate del 1989 alla primavera del 1992, rendendo conto di una sempre più evidente presa d’atto da parte dei principali protagonisti (Andreotti su tutti, ma anche il ministro degli esteri De Michelis e quello del Tesoro Guido Carli) di come Roma, con il susseguirsi sempre più rapido degli eventi successivi al crollo del Muro, stesse perdendo con rapidità tutte le sue “rendite di posizione” legate al confronto bipolare.
La situazione è evidentissima se si osservano le reazioni di Andreotti e della diplomazia italiana al crollo del Muro e all’ipotesi di riunificazione tedesca, ma anche quelle nei confronti dello sfaldarsi della Yugoslavia. Il tentativo italiano era quello di perpetrare il più possibile lo status quo degli anni del bipolarismo. Nel rapportarsi alla prepotente accelerazione della storia successiva al crollo del Muro sappiamo che anche altri leader europei (dalla Thatcher a Mitterrand) non nascosero il loro scetticismo di fronte all’ipotesi di una Germania rapidamente riunificata. La reazione di Andreotti fu però peculiare perché lo statista democristiano sembrava non voler credere ad un’Europa diversa da quella compresa nei confini fissati alla metà degli anni Settanta ad Helsinki. Se anche riunificazione doveva esservi, il processo, sempre secondo Andreotti, doveva essere lento, graduale e senza scossoni in particolare sul fronte Urss, vera preoccupazione della diplomazia italiana. Molto simile si rivela l’approccio nei confronti delle richieste di indipendenza di Slovenia e Croazia. Il “mantra” della Yugoslavia “indipendente, tranquilla e unita” doveva non poco allo spettro della riapertura di un contenzioso sul fronte orientale faticosamente archiviato da Moro a metà degli anni Settanta con gli accordi di Osimo. Altrettanto rilevante era la dimensione di rischio “umanitario”, con la possibilità che il Paese fosse invaso da un’ondata di profughi. Ma in cima alla lista delle preoccupazioni era l’idea che lo sfaldamento della Yugoslavia significasse il crollo di un altro tassello fondamentale di quel mosaico che aveva garantito al Paese una rendita di posizione altrimenti difficilmente replicabile. Una volta compresa l’impossibilità di perpetrare questo status quo, la diplomazia italiana optò per la carta europea. Nel caso tedesco, come in quello iugoslavo, (naturalmente con differenti fortune), l’approccio fu quello di tramutarsi nei paladini più fermi dell’inserimento della riunificazione tedesca, così come della disgregazione della federazione slava, nella più ampia cornice di un necessario rilancio e approfondimento europeo. Se è evidente il fallimento dell’ “europeizzazione” del conflitto iugoslavo, quella della questione tedesca ha senza dubbio contribuito ad una sua pacifica e rapida soluzione.
In realtà, come sottolinea in maniera magistrale Varsori nel lungo capitolo dedicato al ruolo italiano nel negoziato per Maastricht e nelle conclusioni del volume, anche l’ “europeizzazione” della riunificazione tedesca celava una serie di rischi per il nostro Paese, che peraltro si trovò ad affrontare il cruciale passaggio nel momento in cui la crisi del suo sistema politico-istituzionale cominciava a mostrare segnali evidenti.
Varsori mostra bene come una parte importante della classe di governo dell’epoca avesse ben compreso l’opportunità, ma anche gli obblighi, legati all’“europeizzazione” del Paese. Andreotti su tutti, ma anche il suo ministro del Tesoro Guido Carli, avevano chiara la necessità che il Paese avanzasse sulla strada che peraltro, proprio Andreotti, aveva già imboccato negli anni Settanta, con l’ingresso del Paese nello SME. Se quella era stata la prima espressione del cosiddetto “vincolo esterno”, era al momento centrale un altro decisivo passaggio e qui cominciavano ad affollarsi gli interrogativi. L’Italia, la sua economia e il suo sistema politico, sarebbero stati in grado di fare propri i cambiamenti già introdotti dall’Atto Unico e addirittura di affrontare le sfide del mercato unico e dell’Unione economica e monetaria? Quella stessa Italia in drammatico ritardo nel recepire e tramutare in leggi le direttive comunitarie comincia ad essere, nelle cancellerie europee, il possibile anello debole di un momento di ulteriore approfondimento del percorso di integrazione. Il tema dell’inaffidabilità di Roma tornava, insomma, prepotentemente all’attenzione.
In realtà in larga parte proprio grazie all’attivismo di Carli e al sostegno di Andreotti (ostacolati sul tema della contrazione del debito pubblico e delle necessarie privatizzazioni del patrimonio statale da ampi settori della sinistra Dc e del Partito socialista, per motivi essenzialmente clientelari) il nostro Paese fu in prima linea nel corso del 1990 per cercare di imporre una “visione italiana” al processo che confluirà nel Trattato di Maastricht. La coppia Andreotti-Carli, coadiuvata e sostenuta da un gruppo piuttosto eterogeneo di “tecnocrati” di successo del Ministero del Tesoro e della Banca d’Italia (oltre a Ciampi, il nome forse più importante è quello di Tommaso Padoa-Schioppa) sembrò, perlomeno in un primo momento, riuscire ad imporre l’idea della doppia Conferenza Intergovernativa, con l’ipotesi di tenere separati il pilastro economico-monetario da quello di integrazione politica. Ma soprattutto parve riuscire ad ottenere che all’Unione economica monetaria si accompagnasse un serio approfondimento politico. Che insomma si andasse verso la “massima sovranazionalità”, non tanto in nome di un europeismo di maniera, ma per cercare, pragmaticamente, di temperare lo strapotere tedesco, da un lato, ed imporre al Paese quelle riforme economico-sociali altrimenti non negoziabili, dall’altro.
Se il 1990 fu l’anno dell’attivismo politico europeo dell’Italia, il 1991 fu quello dell’eclissi del governo Andreotti dalla scena a causa della profonda crisi nella quale il sistema politico si sta oramai avvitando. L’esecutivo mostrò tutta la sua debolezza sul caso Gladio, nei contrasti istituzionali tra Presidenza del Consiglio e Presidenza della Repubblica (vedi l’attivismo di Cossiga), nella politica estera ondivaga sulla guerra del Golfo e nella sua incapacità di arrestare la corsa sfrenata della spesa pubblica.
Di conseguenza era un’Italia debolissima quella che si trovò a negoziare il Trattato di Maastricht e questo si tramutò ben presto in una sorta di “diktat” tedesco. Si imponeva infatti quella visione, spesso discussa oggi, di una politica monetaria senza una vera politica economica comune, dominata dai due dogmi dell’ortodossia di bilancio e dell’autonomia della Banca centrale europea. L’Italia poteva soltanto fingere di aver ottenuto un successo dal negoziato perché era riuscita ad imporre la cosiddetta “interpretazione dinamica” dei parametri di Maastricht, in realtà ottenuta perché fortemente voluta da Mitterrand.
La sconfitta totale del “sistema Italia” dopo Maastricht si esemplificò nell’attacco speculativo alla lira dell’estate del 1992 e nella concretizzazione di quell’idea di inaffidabilità del nostro Paese così difficile poi da contrastare negli anni successivi.
Maastricht per l’Italia si tramutò in un vero e proprio paradosso. Una parte della classe politica della morente Prima Repubblica continuava ad interpretarlo come “vincolo esterno” per cercare di far approvare politiche economiche impopolari e che avrebbero messo a rischio la fragile tenuta delle composite maggioranze di governo. Esisteva però anche una parte del mondo economico e dei media che lo interpretava come “strumento esterno” per dimissionare una classe politica giudicata incapace e al capolinea. Si trattava di quella composita schiera dei “tecnocrati”, spesso anche molto presenti come autorevoli commentatori sui principali media, ma contemporaneamente policy maker, soprattutto in ambito europeo. Spingendo in maniera decisiva affinché l’Italia accettasse Maastricht così come sostanzialmente imposto da Germania e Olanda, essi scommisero scommettevano sulla possibilità che il Paese potesse superare la sua situazione di impasse per entrare in un contesto di libera concorrenza e di fine dell’ingerenza dello Stato e dei partiti nella sfera dell’economico. Parvero però sottovalutare (consapevolmente o meno?) che accettare quel Trattato di Maastricht (così come lo si concepì tra fine 1991 ed inizio 1992) implicava sottoporsi a regole severe non gestite da organi sovranazionali (più o meno rappresentativi) ma dalle nazioni economicamente più forti del Vecchio Continente, ispirate dalla Germania o da direttori a geometria variabile, ma comunque dominati da Berlino.
Dal 1992 in poi oltre ad essere evidente il tema della scarsa legittimità democratica delle decisioni imposte da Bruxelles, più o meno via Francoforte e/o Berlino, c’è un ulteriore dato che Varsori sottolinea con forza. A questa criticità se ne accosta una tutta interna al sistema italiano. Quello di aver visto un ciclico arretramento dei meccanismi della democrazia rappresentativa a favore di una gestione tecnocratica nei più decisivi passaggi economici, politici ed istituzionali del Paese, in particolare nella dimensione comunitaria. In definitiva se la “Repubblica dei partiti” è anche, e forse soprattutto, una “Repubblica della Guerra fredda”, di fronte alla fine dello scontro bipolare, l’ultimo ventennio pare dominato da una “Repubblica dei tecnocrati” che, a partire da Maastricht, si è arrogata il diritto di scelte decisive, spesso discutibili e soprattutto utilizzando modalità molto distanti da quelle classiche per un sistema ancora, almeno formalmente, repubblicano, parlamentare e rappresentativo.
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