di Antonio Mastino

Lo scorso 20 maggio, il neo-eletto Premier cinese Li Keqiang è atterrato in India, compiendo la prima visita diplomatica da quando ha preso possesso della seconda carica dello Stato cinese (dopo il Presidente Xi Jinping). La visita giunge un mese dopo le tensioni sul confine indo-cinese del Kashmir e, per la precisione, nella regione del Ladakh in cui, il 15 aprile 50 militari cinesi, dotati di mezzi motorizzati e cani, hanno sconfinato di 19km vicino alla località indiana di Daulat Beg Oldi. Questa incursione ha provocato un’escalation culminata con la costruzione di fortificazioni militari da parte degli indiani a 300 metri di distanza, mitigata poi il 5 maggio con la smilitarizzazione totale dell’area.

Durante l’incontro con il Primo Ministro indiano Manmohan Singh, è stato siglato un memorandum d’intesa con 8 punti riguardanti diverse materie, volto a rafforzare i rapporti tra i due Paesi. Tra questi 8 punti, spiccano la creazione di tre gruppi di lavoro nel Joint Economic Group tra i due Ministri del Commercio, un accordo commerciale sul commercio del pesce e della carne bovina (di cui l’India, nonostante le restrizioni religiose, è il terzo esportatore mondiale) e un accordo sulla gestione delle acque del fiume Brahmaputra. Oltre al memorandum, le autorità cinesi e indiane hanno stabilito lo svolgimento di esercitazioni congiunte tra Esercito, Marina e Forze Aeree dei due paesi, da compiersi entro la fine del 2013.

Per quanto riguarda la questione dirimente del Kashmir, invece, si è rimandata a data da destinarsi una soluzione della disputa di confine. La controversia risale alla fine degli anni ’50, quando la Cina disconobbe la cosiddetta “Linea McMahon” cioè lo stabilimento della linea di confine tra le allora sovrane Gran Bretagna e Tibet sancito dall’Accordo di Simla del 1914. Pechino, nell’occasione, rigettò il trattato con la motivazione che il Tibet, non essendo uno Stato legittimo, non aveva il potere di stipulare accordi internazionali. Con la stessa motivazione, oltre al confine occidentale – cambiato a vantaggio dei cinesi dopo la guerra sino-indiana del 1962 – Pechino disconosce anche la parte orientale della Linea McMahon e reclama come Tibet Meridionale un’area di 90.000 km2 nella regione indiana dell’Arunachal Pradesh. L’India, invece, vorrebbe ristabilire i confini del 1914 e, nella ricerca di un accordo, negli anni passati le cancellerie dei due paesi hanno organizzato 15 meeting per definire le sorti di aree contese che sommate equivalgono a un terzo del territorio italiano, ma senza il minimo progresso.

In generale, comunque, la missione diplomatica cinese rappresenta un alleggerimento delle tensioni tra i due Paesi e un tentativo di compiere un primo passo verso una “normalizzazione” definitiva dei loro rapporti. Pechino, infatti, è il principale partner commerciale dell’India, con un volume di affari che si aggira attorno ai 75 miliardi di dollari, cifra che Pechino vorrebbe far crescere sino a 100 miliardi entro il 2015.

La Cina vive una fase critica della sua storia recente, in cui la crescita economica è sempre più pericolosamente prossima alla soglia psicologica del +7% (quella al di sotto della quale, secondo gli analisti, la sua stabilità interna sarebbe a rischio) a causa della crisi internazionale e dell’aumento esponenziale del costo della forza lavoro che sta riducendo, o spostando verso altri luoghi (Vietnam in primis), le delocalizzazioni degli investitori esteri. Tale situazione impone una “maturazione” della politica economica cinese, più propensa all’apertura dei propri mercati con realtà economiche in crescita quali l’India, in misura minore il Pakistan e, a margine del discorso, anche tutta la penisola indocinese. Questa necessità, unita alle spinte centrifughe all’interno del mosaico cinese, necessitano un alleggerimento delle tensioni internazionali e, quindi, anche un’assunzione di responsabilità come attore strategico di riferimento per l’intera regione.

Responsabilità che, tra le altre cose, significherà anche un interessamento diretto di Pechino nell’intricata questione afgana, soprattutto dopo che gli Stati Uniti smantelleranno il loro contingente nel Paese. Il mantenimento della stabilità in Afghanistan risulterà necessario soprattutto perché un’eventuale controffensiva talebana alimenterebbe nuovamente il terrorismo internazionale. Questo, per la Cina vorrebbe dire una nuova escalation di violenza nello Xinjiang, in cui c’è un forte separatismo Uiguro (gli Uiguri sono un’etnia turca di religione musulmana) votato alla creazione dello stato dell’Est Turkestan. Tra i gruppi ribelli, infatti, accanto alle componenti nazionalistiche kemaliste (di stampo laico e repubblicano), vi sono frange legate all’islam più radicale e vicine ideologicamente ai talebani. Il tema della guerra al terrorismo islamico è, dunque, come per l’Occidente, un tema di primaria importanza e riguarda non solo la Cina, ma anche l’India e lo stesso Pakistan, luogo della seconda visita diplomatica del Premier cinese..

Gli sforzi di Pechino per divenire effettivamente il “metronomo” della diplomazia dell’Estremo Oriente si sono visti recentemente nella spinta che la presidenza Xi ha voluto dare per risolvere la recente crisi Coreana. Un indizio della volontà cinese di voler condizionare la politica del vicino nordcoreano – che con il nuovo leader Kim-Jong-Un vede una nuova fase di tensione con i vicini – è stata la chiusura della filiale della divisione Commercio Estero della Banca di Cina con sede a Pyongyang, che rappresenta per la Repubblica Popolare la banca economicamente più importante, essendo l’unico hub per il suo commercio con l’estero. Con questa decisione così incisiva, Pechino ha voluto dare un forte segnale di chiusura nei confronti della politica estera del nuovo capo di stato nordcoreano, a cui si è aggiunta la richiesta del Presidente Xi affinché la Nord Corea riprenda la via del dialogo attraverso i “six-party talks” (con Cina, Russia, Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone) abbandonati da Pyongyang nel 2008. Probabilmente è da leggersi in tal senso il fatto che lo scorso 25 maggio Xi abbia ricevuto il vice-maresciallo Choe Ryong-hae come inviato speciale della Repubblica Democratica Popolare Coreana.

La strada verso gli accordi di pace con New Delhi è quindi per la Cina necessaria per ritagliarsi il ruolo menzionato di attore di riferimento su scala regionale ma, oltre alle già citate dispute di confine, vi sono ulteriori elementi di attrito altrettanto dirimenti. In primis, la questione tibetana che, oltre alla questione dell’Arunachal Pradesh riguarda anche l’esilio del Dalai Lama che tutt’ora risiede in India. Non meno importanti sono la gestione delle acque del fiume Brahmaputra, nella cui parte cinese è in cantiere la costruzione di diverse dighe e i rapporti con il Pakistan, tutt’ora in guerra con l’India. Pechino è uno dei principali fornitori di armi di Islamabad e la loro partnership strategica si è spinta sino alla concessione dell’utilizzo da parte dei cinesi del porto pakistano di Gwandar. Le coste della città sono prossime allo stretto di Hormutz e rappresentano, quindi, una vera e propria “porta” per il Medio Oriente e, soprattutto per il Corno d’Africa, dove Pechino ha enormi interessi, innanzitutto in campo energetico.

Dal canto suo, l’India, il più grande compratore di armi al mondo e che ha visto il proprio potenziale militare crescere esponenzialmente negli ultimi anni (per esempio hanno testato con successo il loro primo missile intercontinentale), sta cambiando atteggiamento in politica estera. Ha ridotto le spese militari in rapporto al PIL e vede nascere al suo interno un dibattito meno ideologico sulla questione dei confini. A prova di ciò, vi sono non solo le dichiarazioni dell’ex generale delle Forze Armate indiane Joginder Jaswant Singh che ha invocato un ammorbidimento della posizione di New Delhi, ma anche quelle dello stesso governatore dell’Arunachal Pradesh che ha parlato di “incongruenze” della Linea McMahon che dovrebbero essere ” risolte amichevolmente”. Nonostante questo, comunque, il Kashmir rimane di importanza strategica per New Delhi poiché, nell’ambito del conflitto mai pacificato con il Pakistan, rappresenta l’unica parte del confine tra i due paesi non a maggioranza musulmana, la più favorevole dunque per un eventuale (seppur molto improbabile) attacco di terra nonché, essendo geograficamente un altopiano, per l’installazione di basi missilistiche.

L’Asia, dunque, ancora in equilibrio di forze precario e condizionato dalle spinte nazionalistiche delle opinioni pubbliche dei vari Paesi, è alla ricerca di una quadra per giungere a uno sviluppo pacifico delle rispettive economie. La Cina, come detto nel bel mezzo di un “turning point” del suo modello di sviluppo, è costretta, da un lato a una delicatissima politica di proiezione esterna a Est per sfruttare le risorse energetiche dei Mari Cinesi Orientale e Meridionale, dall’altro lato, a un’altrettanto delicata realpolitik che le impone buoni rapporti con tutti. Per questo motivo, è prevedibile che nel prossimo futuro sarà chiamata a uno sforzo diplomatico ancora più attivo, in particolare nelle questioni indo-pakistane.

 

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