di Federico Donelli

L’ultimo incontro tra il Presidente statunitense Barack Obama e il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdoğan è servito a rinsaldare i rapporti tra i due Paesi e per affrontare discussioni su temi delicati come la guerra civile siriana, la situazione di Gaza e lo sviluppo del nucleare iraniano. Oltre a questi argomenti in agenda vi era anche un tema dalla rilevanza geopolitica primaria per i futuri equilibri mediorientali, ossia l’incremento della presenza navale turca nel Golfo di Aden.

Per comprendere la portata del cambiamento in atto nello stretto ramo di mare che collega il Mar Rosso all’Oceano Indiano occorre richiamare alcuni degli elementi recentemente introdotti dalla Turchia nella propria impostazione di politica estera. La politica estera turca dopo un cauto allontanamento dalle tradizionali posizioni kemaliste (mantenimento status quo) ha subito una drastica riformulazione dovuta alla maggiore rilevanza assunta a partire dal 2008 dall’attuale Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu. L’impostazione geopolitica di Davutoğlu mira a fare della Turchia un attore di primo piano a livello regionale e non solo attraverso il recupero significativo di molti elementi storico culturali che legano indissolubilmente il Paese agli Stati limitrofi. Il nuovo corso di politica estera ha portato ad un frenetico attivismo soprattutto negli ex domini dell’Impero Ottomano (Balcani, Medio Oriente, Asia Centrale, Africa) aree in cui la Turchia ha intensificato la propria presenza sfruttando abilmente nuovi strumenti di soft power (istruzione, intervento umanitario, accordi economico-commerciali). L’ingresso in contesti a lungo ignorati ha inevitabilmente fatto emergere contrasti con l’altra grande potenze regionale con cui la Turchia mantiene rapporti ambigui ma di stabile equilibrio: la Repubblica Islamica dell’Iran.

Riproponendo tensioni e sfide che storicamente avevano contrapposto il potere ottomano a quello persiano, oggi il confronto si rinnova in diverse aree del Medio Oriente dalla Siria al Nord dell’Iraq (Kurdistan iracheno) fino agli estremi confini della Penisola Araba ed alle acque che la circondano. Passando attraverso il Canale di Suez ed Aden le flotte turche hanno intensificato la propria presenza lungo le coste di Oman arrivando fino alla soglia del Golfo Persico, acque considerate dall’Iran di proprio esclusivo interesse strategico. Vedendo l’aumento delle presenza navale turca, Teheran, con la scusa di perseguire operazioni contro la pirateria e sfruttando le relazioni amichevoli con l’Eritrea, ha a sua volta inviato diverse navi nell’Oceano Indiano e – elemento di novità grazie alla ritrovata amicizia con l’Egitto – nel Mar Rosso, facendole attraccare a Port Sudan.

L’attuale congestione navale nelle acque del Golfo di Aden riflette le crescenti ambizioni di Iran e Turchia che, pur mantenendo formalmente relazioni amichevoli, sono consapevoli di poter allargare la propria sfera di influenza in Paesi alle prese con difficili fasi di transizione come la Somalia e lo Yemen. Una situazione che giustifica gli ingenti investimenti effettuati dal governo di Ankara nella cantieristica navale negli ultimi anni, rafforzando ulteriormente quella che rimane ad oggi la più potente ed attrezzata marina militare di tutto il Medio Oriente e Nord Africa.

A partire dal 2009 la Turchia, sfruttando diverse missioni NATO (Task Force 151) contro la pirateria, ha potuto aumentare gradualmente la propria flotta tra Oceano Indiano e Mar Rosso, ruotando continuamente le proprie fregate e creando una situazione di presenza pressoché permanente. Alla base vi è però un ulteriore elemento dalla portata rivoluzionaria ossia il graduale disimpegno statunitense dalla regione. La crisi finanziaria ha imposto a Washington non solo il ridimensionamento delle proprie spese militari con la conseguente razionalizzazione delle forze disposte in diverse aree del globo, ma ha anche spinto il Dipartimento di Stato a rivedere la propria presenza in regioni non più considerate di importanza vitale. In questo contesto l’area del Golfo rappresenta una zona di interesse strategico limitato rispetto al passato. Uno scenario futuro, di cui si è discusso durante i recenti incontri bilaterali, vede gli Stati Uniti ridurre la propria presenza ridimensionando il numero di unità navali stanziate al largo della Penisola Araba, lasciando alla Turchia il compito di inibire la presenza e l’attivismo navale iraniano. Fonti vicine allo stesso Ministro degli Esteri turco riportano di due possibili progetti in grado di far acquisire una base permanente turca. Il primo mirerebbe a sfruttare i legami con la Somalia, stretti grazie all’opera di mediazione della Turchia tra il governo di Mogadiscio e le rivendicazioni indipendentistiche di Somaliland, ottenendo una base permanente all’interno del porto di Berbera; il secondo, invece comporterebbe la messa in sicurezza del porto di Aden facendolo diventare il principale avamposto turco.

Le manifestazioni di protesta che nelle ultime settimane imperversano in Turchia distoglieranno l’attenzione dalle scelte di politica estera ma difficilmente comporteranno serie ripercussioni a medio lungo termine sia sull’esecutivo di Erdoğan, che gode ancora dell’appoggio della maggioranza del Paese, sia sulle ambizioni macro-regionali di Ankara che inevitabilmente passano per il controllo del Golfo di Aden.

 

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