di Danilo Breschi

“Quello di limitarmi all’analisi è un po’ un mio difetto”, ammette nel suo ultimo pamphlet (“La sfida. Come destra e sinistra possono governare l’Italia”, Feltrinelli) Luca Ricolfi, il quale d’altronde insegna Analisi dei dati all’Università di Torino in qualità di sociologo dei fenomeni politici ed economici. La sua riluttanza a dare consigli è giustificata dal timore di scadere nei ruoli, abbondantemente occupati, di “consigliere del principe” o di “grillo parlante” che quotidianamente “spiegano ai politici che cosa dovrebbero fare”. Ma oggi manca sia l’analisi dettagliata e competente di quel che viene fatto, sia il suggerimento altrettanto dettagliato e competente di quel che resta da fare. Ben vengano queste pagine con cui Ricolfi intende rispondere al rimprovero di chi ha ravvisato nelle sue analisi, indubbiamente dettagliate e competenti, una mancanza o carenza di positiva indicazione su cosa si potrebbe tentare di fare. Giustamente, da docente e cittadino consapevole Ricolfi sente una responsabilità verso i più giovani.

Da anni il sociologo dell’Università di Torino si chiede come mai l’Italia non riesca ad uscire da una palude in cui, a suo avviso, siamo entrati nei primissimi anni Novanta. La nostra economia ha iniziato prima a crescere poco, poi, dal 2000 al 2007, si è arrestata, e dal 2007 ad oggi decresce. Ricolfi ritiene addirittura che siamo ben oltre il già preoccupante declino. Siamo in uno stato di “recessione permanente”. Il declino almeno è lento, mentre l’Italia precipita, se è vero che ultimamente il reddito pro-capite si sta riducendo di quasi il 2% ogni anno.

Cosa fare, allora? Solitamente si diagnostica il male e poi si somministra la cura. Anche Ricolfi l’ha fatto per anni, ma adesso ritiene che questo tradizionale, e in sé corretto, modo di procedere non sia adeguato, anzi costituisca parte del problema italiano, e ha finito per favorire l’inazione che ci sta divorando da molti anni a questa parte. “Dobbiamo cambiare radicalmente prospettiva. Dobbiamo capovolgere il nostro modo di ragionare”, scrive perentorio Ricolfi.

Due sono i modi tradizionali con cui la politica italiana, e non solo, pensa la realtà: “da sinistra” e “da destra”. Il pensiero di sinistra attribuisce la crisi al dilagare del “liberismo” (dentro cui spesso mette dentro il liberalismo tout court), accusato di aver aumentato le disuguaglianze, quindi ridotto drasticamente i consumi, e di essere ossessionato dai tagli alla spesa pubblica e al welfare. Il pensiero di destra addebita invece la crisi allo statalismo di ascendenza socialista, all’eccesso di pressione fiscale, anch’esso causa di minori consumi e investimenti privati. È evidente che le diagnosi sono agli antipodi, e dunque le proposte di politiche pubbliche che ne derivano risultano inconciliabili tra loro. Uno dice “più Stato”, l’altro “meno Stato”. Dialogo tra sordi. E i risultati, dopo vent’anni, si vedono tutti davanti e intorno a noi.

Il grande stallo, questa la situazione generale in cui versa l’Italia. E non solo sul piano strettamente politico. Anche culturale e psicologico. Tutte le diagnosi proposte dalle parti politiche oggi in campo sono “insostenibili”: “se si facesse quel che vuole la destra, i sindacati bloccherebbero tutto. Se si facesse quel che vuole la sinistra, peggiorerebbero i conti pubblici. Se si continuasse a fare quel che si sta facendo, ossia pura austerità, ci avviteremmo in una spirale tipo Grecia. Se si facesse quel che suggerisce Grillo, reddito di cittadinanza e ripudio del debito pubblico, salterebbe il paese”.

Quand’è che una politica è “sostenibile”? Per esserlo, deve soddisfare un prerequisito e due condizioni. Il prerequisito è che “non deve uccidere, o debilitare gravemente, il paziente che si appresta a curare”. Rischiano di farlo sia l’austerità prolungata, che produce un progressivo impoverimento, sia la politica opposta, che aumenta il deficit pubblico e rinuncia ad onorare i debiti dello Stato. L’Unione Europa ha la “colpa” di ricordarcelo. Pensare di uscirne, non evita il rischio che comporta l’indebitamento prolungato: il collasso improvviso. Le due condizioni per la sostenibilità sono anzitutto un consenso sufficiente “a neutralizzare le inevitabili resistenze che qualsiasi politica degna di questo nome è destinata a incontrare”. Non esiste alcun ottimo paretiano nelle politiche pubbliche, ovvero una situazione per cui molti vi guadagno e nessuno vi perde qualcosa. Anche il taglio ai costi della politica, misura giusta e necessaria, non avrà mai il consenso totale, e all’opposizione non vedrà solo la “casta” ma anche chi negli apparati dei partiti lavora come semplice impiegato, e parliamo di migliaia, forse decine di migliaia di lavoratori. Niente è indolore, e la spietatezza non si addice ad una politica pubblica democratica, tanto sociale quanto liberale.

La seconda condizione di sostenibilità è quella “di produrre benefici collettivi graduali ma incontrovertibili, o perlomeno difficilmente incontrovertibili”. Qui giunge in soccorso la millenaria saggezza indiana che il premio Nobel per l’economia Amartya Sen ha saputo recuperare assieme al concetto giuridico di “nyaya”, presente in un testo sacro sanscrito, che rimanda ad una idea di giustizia di tipo relativo e comparativo, “che non si chiede qual è la meta finale verso cui tendere ma se l’assetto esistente possa essere migliorato”. In politica, specie in quella italiana, la domanda finora posta è stata la più errata e deleteria da farsi: “chi ha ragione?”, e il suo sottinteso: “chi ha la ricetta giusta, la soluzione perfetta?”. Sen ci insegna che non dobbiamo chiederci come sarebbe l’assetto di una società giusta, perché non ne verremmo mai a capo. Piuttosto dobbiamo partire dalla constatazione che la nostra società è ingiusta e così com’è non va bene. Dobbiamo correggerla rimuovendo il maggior numero di ostacoli, consapevoli che siamo esseri a nostra volta limitati e dalla conoscenza ridotta. Non esiste “una verità matematica, religiosa o morale che dobbiamo scoprire e poi mettere in atto”, ma terapie da sperimentare in corpore vili e miglioramenti parziali e graduali, razionali e reali anche perché fallibili.

Destra e sinistra devono smetterla di comportarsi come i cani di Pavlov (più welfare, ripete la sinistra; meno tasse, ripete la destra), perché ogni proposta estrema, radicale e partigiana, serve solo ai corporativismi italici a giustificare meglio i loro rispettivi veti. Fare una spending review delle dimensioni proposte da Brunetta (ma anche, a suo tempo, da Oscar Giannino e dalla lista “Fermare il declino”) susciterebbe anzitutto opposizioni e resistenze bloccanti, e poi, quel che conta, difficilmente si tradurrebbe in un miglioramento della qualità dei servizi al cittadino.

Infatti, uno dei dati di fatto da cui occorre partire è che il nostro Stato sociale è “largamente incompleto”. Mancano asili nido, ammortizzatori sociali universali, politiche per i poveri, gli anziani e i non autosufficienti. Nei settori dove invece vi è una qualche copertura sociale, le risorse stanziate sono scarse se comparate alla spesa sanitaria di paesi come la Francia e la Germania (del 30-40% superiore alla nostra). Questo dato va valutato assieme ad altri tre, altrettanto incontrovertibili. Anzitutto, una evasione fiscale e contributiva tra le più alte del mondo sviluppato. Circa 130 miliardi di euro l’anno di gettito totale evaso. Una pressione fiscale tra le più alte, e la più alta in assoluto tra i paesi Ocse per quanto riguarda i produttori: il total tax rate raggiunge infatti il 68,3%. C’è, infine, il problema degli sprechi nella Pubblica amministrazione (sanità, istruzione, giustizia, burocrazia, assistenza) per un ammontare complessivo di almeno 80 miliardi di euro all’anno.

La destra punta a sottolineare solo due dei quattro dati-problemi sopra esposti, la pressione fiscale e gli sprechi. La sinistra, viceversa, la debolezza dello Stato sociale e la grande evasione fiscale. La logica è chiara e divaricante, fino alla lacerazione: “la sinistra vuole rafforzare lo Stato sociale facendo pagare il conto ai contribuenti-evasori, la destra vuole sostenere i produttori disboscando il nostro welfare-sprecone”. Ma i problemi sono quattro, e tutti e quattro vanno affrontati, insieme. Ed ecco la modesta ambiziosa proposta di Ricolfi, meritevole di risonanza e ascolto: “la destra dovrebbe rinunciare a finanziare la riduzione delle tasse con i tagli alla spesa pubblica”, mentre “la sinistra dovrebbe rinunciare a rafforzare lo Stato sociale con inasprimenti della pressione fiscale”. Una doppia rinuncia che lasci per un po’ tasse e spesa pubblica al livello attuale in termini di rapporto con il Pil. Un “congelamento” della finanza pubblica inerente solo i livelli aggregati delle entrate e delle uscite, di cui si dovrebbe mutare “drasticamente” la composizione interna. Ogni euro recuperato dalla lotta all’evasione dovrebbe essere usato “interamente” per abbassare le aliquote, anzitutto quelle che gravano sui produttori. Ogni euro risparmiato dall’eliminazione di sprechi e inefficienze dovrebbe essere usato “per irrobustire lo Stato sociale” in quei settori in cui è assente.

La sinistra non potrebbe più negare che una lotta agli sprechi è anche una sua battaglia, nella misura in cui ne ricava risorse preziose per l’irrobustimento dello Stato sociale da lei difeso. La destra non potrebbe più negare che la lotta all’evasione è anche una sua battaglia, dal momento che con i soldi recuperati si finanzia la riduzione drastica delle aliquote, anzitutto per il mondo delle imprese e delle partite Iva. La lotta non deve essere su fini ultimi, come libertà od eguaglianza, perché tra essi non vi può essere transazione ma solo intransigente chiusura; chi vuole per sé più libertà di azione per avere meno eguaglianza di trattamento, o viceversa? La competizione in politica è sui mezzi, perché il fine è condiviso, deve esserlo: un po’ più liberi e un po’ più eguali, o, più realisticamente parlando: un po’ meno vincolati e pressati, un po’ meno diseguali. Sulla scelta dei mezzi si può, e forse anche si deve, cercare e trovare compromessi ragionevoli.

In un governo di “larghe intese” o “grande coalizione” questo è necessario. Però anche in un contesto di più fisiologica alternanza tra destra e sinistra al governo, l’una dovrebbe trovare “il modo migliore di alleggerire le aliquote, senza contare sui tagli alla spesa pubblica”, e l’altra dovrebbe trovare “il modo migliore di irrobustire lo Stato sociale, senza far conto sui proventi della lotta all’evasione” e al sommerso (lotta che, senza essere accompagnata da un drastico abbassamento delle aliquote, ricorda Ricolfi, “farebbe chiudere centinaia di migliaia di attività e distruggerebbe milioni di posti di lavoro” perché la pressione fiscale diventerebbe soffocante). Dunque lotta all’evasione e riduzione delle aliquote, rafforzamento dello Stato sociale e caccia agli sprechi della pubblica amministrazione.

Perché la sinistra non comincia dal taglio ai tuttora enormi sprechi della PA? Perché la destra non comincia dalla lotta all’enorme evasione fiscale? Mancano volontà e intelligenza politica? Non so. Certo, per mischiare le carte tra destra e sinistra bisogna dire addio all’emiplegia ideologica (e alla pigrizia e all’opportunismo di chi – politici, sindacalisti, burocrati e intellettuali disonesti – vive della rendita data loro da una politica nutrita e spacciata come integralismo fideistico e cieca contrapposizione tra bene e male) ed avere un’idea di bene comune, un ideale condiviso di interesse nazionale.

La “sfida” di Ricolfi è rivolta a destra e a sinistra, ma anche all’opinione pubblica e a chi leggerà il suo libro: pretendere con forza e intelligenza “un governo che dicesse: cara destra e cari imprenditori, volete meno Irap? Ok, ma allora mi aiutate a scovare gli evasori, specie nei territori dove ce ne sono di più […] Cara sinistra e cari sindacati del pubblico impiego, volete più asili nido? Ok, ma allora mi aiutate a scovare falsi invalidi e nullafacenti”. I propri sogni non si realizzano negando i sogni altrui, e l’ottimo sarebbe “un tipo di società in cui il welfare è generoso, ma i produttori di ricchezza non sono spremuti da un fisco arrogante e vorace”. Ecco una proposta da inoltrare direttamente, per posta celere, a Letta e al suo governo. Anzi, raccomandata con ricevuta di ritorno.

 

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