di Damiano Palano
Il 15 gennaio del 1991, poche ore prima che scadesse l’ultimatum del Consiglio di Sicurezza dell’Onu all’Iraq di Saddam Hussein, Norberto Bobbio rilasciò una breve dichiarazione al Tg3 regionale del Piemonte sulla guerra che, di lì a poco, sarebbe effettivamente incominciata. Nell’esiguo spazio concesso da un’intervista televisiva, Bobbio si soffermò su due domande distinte, considerando se la guerra fosse giusta e, oltre che giusta, potesse essere efficace. «Per quanto riguarda il primo problema», affermò il filosofo torinese, «la risposta è indubbia: è una guerra giusta perché è fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa». Meno chiare erano invece le cose per quanto atteneva il secondo nodo: «la guerra», continuava infatti Bobbio, «sarà efficace innanzi tutto se è vincente; in secondo luogo, se è rapida rispetto al tempo e se è limitata rispetto allo spazio, nel senso che sia ristretta al teatro di guerra dell’Iraq» (N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia, 1991, p. 39). Solo alcuni giorni prima, Bobbio aveva rifiutato di prendere una posizione a favore o contro la decisione di entrare in guerra. «È un conflitto insanabile tra l’etica dei principi e l’etica dei risultati: una di quelle scelte che i moralisti definirebbero tragica», osservò infatti rispondendo a una domanda postagli da «il Sabato» (ibi, p. 37). In fondo, nell’intervista rilasciata al Tg3 non faceva che riprendere lo stesso concetto, e non era dunque casuale che, dopo aver risposto positivamente all’interrogativo se la guerra fosse più o meno «giusta», dedicasse un’attenzione ben superiore alle attese sulla sua efficacia. Perché era proprio attorno a quest’ultimo punto che si doveva fornire una soluzione al tragico conflitto tra l’etica dei principi e l’etica dei risultati. Ma nessuno sembrò cogliere questa sfumatura, e nel giro di poche ore Bobbio divenne così il teorico della «guerra giusta». Tanto da costituire uno dei bersagli principali del fronte pacifista, oltre che l’obbligato termine di confronto per tutti quegli opinionisti che si accostavano al tema del conflitto.
Nella storia intellettuale dell’Italia dell’ultimo trentennio la prima Guerra del Golfo occupa un posto che è probabilmente difficile sopravvalutare. Per molti versi, si trattò infatti dell’ultima occasione in cui si sfoderarono armi teoriche e retoriche ereditate dalla Guerra fredda. Ma, al tempo stesso, iniziarono a delinearsi nuovi schieramenti, che rompevano nettamente con quelli più consueti, e che negli anni seguenti difficilmente si sarebbero riproposti. Nel fronte pacifista si potevano trovare infatti militanti che rispolveravano le vecchie parole d’ordine della lotta all’imperialismo americano, ma anche raffinati (e tutt’altro che conservatori) intellettuali come Massimo Cacciari, oltre che ampie componenti del mondo cattolico (e non soltanto di quello tradizionalmente rivolto a sinistra), che potevano trovare un solido riferimento nella vibrante condanna di Giovanni Paolo II. Sul fronte dei sostenitori dell’intervento, in cui Bobbio fu arruolato (non senza qualche forzatura), non trovarono posto invece soltanto gli storici esponenti dell’atlantismo, rinvigoriti dalla vittoria sul socialismo reale. Su questa linea si collocarono per esempio anche la rivista «Micromega» e Paolo Flores d’Arcais, il quale intravide allora nello schieramento pacifista i contorni di un nuovo blocco conservatore, capace di raccogliere tutti i fondamentalismi sotto la bandiera della lotta contro il ‘progresso’. Ma, al di là dei termini di quella discussione, la prima Guerra del Golfo iniziò effettivamente a delineare una serie di problemi del tutto nuovi, che palesavano la realtà del «momento unipolare», e che al tempo stesso rendevano del tutto inservibili molti degli schemi di ragionamento adottati fino a quel momento. Non è così affatto sorprendente scoprire come proprio il conflitto iracheno abbia rappresentato per molti teorici radicali un punto di svolta, e come le dinamiche del conflitto del 1991 abbiano dato avvio all’elaborazione di programmi – pur fra loro molto diversi – come per esempio quelli di Giorgio Agamben, di Danilo Zolo o persino di Hardt e Negri. E non è neppure sorprendente che Norberto Bobbio e la sua riflessione sulla «guerra giusta» siano diventati un termine di confronto (esplicito o implicito) per tutte queste riflessioni.
Anche se la discussione del gennaio 1991 impresse quantomeno qualche deformazione al suo ragionamento, l’idea della «guerra giusta» aveva rappresentato un tema di interesse pressoché costante nel percorso di Bobbio, almeno a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Ed è proprio a questo aspetto della riflessione del filosofo torinese che si rivolge ora il volume di Giovanni Scirocco, L’intellettuale nel labirinto. Norberto Bobbio e la «guerra giusta» (Biblion Edizioni, pp. 126, euro 10.00). Il libro di Scirocco si inserisce in una letteratura critica senza dubbio affollata, che – anche grazie al lavoro compiuto da allievi di Bobbio come Luigi Bonanate, Michelangelo Bovero, Pietro Polito, Pierpaolo Portinaro e Marco Revelli – ha contributo a ripercorrere i fili dell’opera dello studioso. Ma la produzione di Bobbio è davvero sterminata, e così chiunque si accosti al suo percorso rischia davvero – per parafrasare il titolo del volume di Scirocco – di smarrirsi in un labirinto di saggi, articoli, conferenze, interviste, e di perdere così gli elementi di continuità di un itinerario. Tenendo ben saldo il filo di Arianna rappresentato dalla riflessione sulla «guerra giusta», Scirocco riesce invece a seguire tappa per tappa l’evoluzione del pensiero di Bobbio in proposito. Anche grazie all’utilizzo delle carte conservate nell’archivio personale del filosofo, ora ospitate presso il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, Scirocco può infatti mostrare come Bobbio avesse incominciato a interrogarsi sulla possibilità di una «guerra giusta» circa trent’anni prima dello scoppio del primo conflitto del Golfo. Fu infatti all’inizio degli anni Sessanta, grazie all’incontro con l’opera di Günther Anders, che le questioni della guerra e della «condizione atomica» entrarono nella riflessione dell’intellettuale torinese. La proposta di Anders – per cui Bobbio scrisse la Prefazione a Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki (Einaudi, Torino, 1961) – era principalmente di ordine etico, ma il punto era che il filosofo tedesco poneva in modo radicale la necessità di prendere atto del fatto che la minaccia dell’annientamento dell’umanità non era più un’eventualità del futuribile, ma una possibilità concreta, se non addirittura la conseguenza inevitabile di una nuova guerra. Bobbio non avrebbe mai sposato l’idea di un pacifismo etico, preferendo sempre la prospettiva di un «pacifismo istituzionale». Ma, da quel momento, i temi della pace e del pacifismo entrarono stabilmente tra gli oggetti privilegiati dalla sua attività di ricerca.
Il confronto con Anders e l’attiva partecipazione al movimento pacifista italiano indussero Bobbio a occuparsi in modo più approfondito del problema della guerra, e dunque a considerare anche il grande tema della «guerra giusta». In quegli stessi anni, lo studioso prese parte tra l’altro alle attività della sezione italiana della Fondazione Bertrand Russell per la pace, la cui animatrice era Joyce Lussu. A questo proposito sono piuttosto significative alcune formule di dissenso che Bobbio espose a Lussu in relazione alla posizione di Russell sul conflitto indo-pakistano. In una lettera ora pubblicata nel volume di Scirocco, Bobbio scriveva infatti, polemizzando con Russell: «Non vi è nulla di più opinabile che il giudizio del giusto e dell’ingiusto soprattutto quando si tratta di rapporti tra stati che vivono in una condizione di quasi anarchia […]. Chiunque abbia una qualche familiarità col diritto sa che il giudizio sul giusto e sull’ingiusto anche in fatti molto banali è difficile. […] Un pessimo modo di impegnarci in questa azione sarebbe quello di prendere posizione di fronte a tutte le guerre stabilendo chi ha ragione e chi ha torto, cioè ritornando alla teoria della guerra giusta abbandonata ormai da secoli» (p. 30). Non si trattò dell’unico motivo di dissenso, ma, ad ogni modo, anche questi contrasti spinsero Bobbio a riflettere sulla tradizione teorica del pacifismo. Il risultato principale fu il lungo saggio Il problema della guerra e le vie della pace, apparso nel 1966 su «Nuovi Argomenti» e destinato poi a essere più volte ristampato. La gestazione del saggio era stata piuttosto tormentata, e Scirocco ne ricostruisce le tappe di composizione. Ma ciò che il lavoro profilava era la preferenza accordata da Bobbio al pacifismo istituzionale, a un pacifismo «giuridico», vicino a quello di Hans Kelsen, secondo il quale la pace può diventare possibile solo grazie all’esistenza di un «Terzo» superiore, capace di esercitare la funzione che lo Stato svolge nei rapporti interni.
Nei decenni seguenti Bobbio avrebbe continuato a riproporre quella medesima visione, pur nella consapevolezza che le Nazioni Unite, bloccate dalla logica del bipolarismo, avessero lasciato del tutto incompiute le ambizioni originarie. Ma lo scenario cambiò ovviamente con il 1989, e non è dunque sorprendente che Bobbio tornasse a evocare la nozione di «guerra giusta» alla vigilia del primo conflitto del Golfo. Comprensibilmente, Scirocco dedica così la parte conclusiva del volume proprio al dibattito innescato dalla breve intervista televisiva del 15 gennaio 1991. In realtà, Bobbio si pentì ben presto di aver utilizzato un’espressione tanto ambigua, anche se non mutò sostanzialmente la propria posizione. Parlando di una «guerra giusta» intendeva alludere a una guerra legittima dal punto di vista del diritto internazionale, e sotto questo profilo era pressoché indiscutibile che l’occupazione militare del Kuwait da parte delle forze armate irachene rendesse legittimo un intervento armato condotto sotto l’egida delle Nazioni Unite. «Sono io stesso il primo a riconoscere che è stato da parte mia un errore usare la parola ‘giusto’ non rendendomi conto che poteva essere interpretata in modo diverso da come l’avevo intesa io, molto semplicemente come guerra ‘giustificata’ in quanto rispondente ad un’aggressione», scrisse per esempio a Danilo Zolo (ibi, p. 77). Ma nel dibattito che fece seguito alle parole del filosofo, l’aggettivo fu inteso invece nel suo significato etico, ossia come un riferimento a una giustizia superiore, capace di discernere fra bene e male. Per questo molti intellettuali riconobbero in Bobbio l’alfiere di una sorta di nuova ‘guerra santa’, combattuta sulla base della convinzione che l’Occidente fosse schierato dalla parte del ‘giusto’ e del ‘bene’. E, fra gli altri, Marco Revelli poté criticare Bobbio ricorrendo alle stesse argomentazioni di Il Problema della guerra e le vie della pace, in cui la guerra veniva definita come una «via bloccata».
Dopo la prima Guerra del Golfo, la questione della «guerra giusta» si ripropose nuovamente, soprattutto nel caso della guerra «umanitaria» contro la Serbia, nel 1999. Questa volta Bobbio negò però la legalità dell’intervento, pur giustificandolo, e le sue argomentazioni andarono così a collocarsi su un piano differente, in cui la dimensione istituzionale non era più centrale, mentre acquistava maggior peso una dimensione ‘realistica’, che in sostanza tendeva a prendere atto del ruolo ‘imperiale’ degli Usa. «Gli Stati Uniti», affermava, «sono, orwellianamente, ‘più uguali’ degli altri, e hanno acquisito una specie di diritto assoluto che li pone totalmente al di fuori dell’ordine internazionale costituito. […] La nostra difficoltà di Europei, in questa circostanza, è che non possiamo non essere filo-americani, non possiamo non essere amici degli Usa, non possiamo disconoscere questa primazia di un paese che ci ha ripetutamente salvato». Comprensibilmente, attorno a queste frasi si sviluppò un polemica piuttosto energica, anche perché la logica di un simile ragionamento pareva divergere in modo sostanziale dalla traiettoria del pacifismo istituzionale, che Bobbio aveva sino a quel momento seguito, e cui le stesse posizioni espresse nel 1991 si riconducevano. Anche in questo caso, il filosofo ridimensionò in parte il peso delle sue affermazioni e disse di aver fatto il «passo più lungo della gamba», parlando di una giustificazione etica per il ruolo di egemone assunto dagli Usa. Ma, d’altro canto, osservò che, «esaminati equamente, imparzialmente, senza animosità preconcetta i pro e i contro di fatto, […] gli Stati Uniti si sono trovati sempre dalla parte giusta […] in base ad un criterio di valore, che non ricavo dalla constatazione di fatto di come sono andate le cose bensì presuppongo: la democrazia anche difettosa è preferibile a qualsiasi forma di stato autoritario, dispotico, totalitario, di cui l’attuale regime serbo è un esempio perfetto» (ibi, p. 100).
Le conclusioni cui Bobbio giungeva proprio sul finire del secolo non pretendevano certo di costituire un punto fermo. Si trattava piuttosto di approssimazioni, di tentativi che non potevano che porsi sempre come problematici e provvisori, dinanzi al problema «tragico» della scelta intorno al «male minore». Ed è per questo del tutto appropriato il titolo con cui Scirocco ha inteso sintetizzare il percorso di Bobbio intorno al nodo della «guerra giusta». Il filosofo torinese ebbe in effetti sempre chiara la percezione che la propria riflessione su questo tema era molto simile al tentativo di trovare una via d’uscita da un labirinto claustrofobico. Nell’Autobiografia osservò per esempio: «La condizione umana può essere raffigurata meglio con una terza immagine, che io prediligo: quella del labirinto. Crediamo di sapere che una via d’uscita esista, ma non sappiamo dove sia. Non essendoci nessuno al di fuori di noi che possa indicarcela, dobbiamo cercarla da noi» (N. Bobbio, Autobiografia, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 226-227). Ma – come ricorda Scirocco nelle pagine conclusive – in una prospettiva segnata da un marcato ‘pessimismo esistenziale’ come quella di Bobbio, la ricerca della via d’uscita doveva spesso assumere i contorni di un’impresa destinata a condurre ogni volta al punto di partenza. E così, come lo stesso Bobbio non mancò di rilevare in una vecchia intervista, la metafora si doveva tingere di toni ben più cupi: «Lo stesso Plutarco ammette che il labirinto era probabilmente una prigione da cui i prigionieri non potevano uscire. Forse è questa interpretazione del labirinto che conviene di più alla rappresentazione della storia umana» (ibi, p. 117).
Se per molti versi era ben consapevole di come fosse impossibile trovare una via di uscita dal labirinto, Bobbio non tramutò mai il proprio ‘pessimismo esistenziale’ in cupa rassegnazione. E per quanto sia possibile contestare alcune delle sue posizioni intorno alla «guerra giusta», così come – da un’ottica pienamente ‘realista’ – criticare la prospettiva del «pacifismo istituzionale», è davvero difficile non ravvisare anche oggi nel riconoscimento del mutamento radicale che interviene con l’era atomica un obbligato punto di partenza per ogni riflessione sulla trasformazione dell’ordine politico mondiale. Trent’anni fa, in un intervento pubblicato su «Vita e Pensiero», Bobbio si soffermava d’altronde proprio su questo dato ineludibile, che colora il nostro tempo di un nuovo, tetro millenarismo. «Il punto di partenza obbligato per ogni discorso sulla pace è una constatazione di fatto: dal giorno della bomba di Hiroshima la prospettiva della storia umana è cambiata. L’uomo si è trovato per la prima volta di fronte a strumenti di distruzione tanto potenti da mettere a repentaglio la vita, ogni forma di vita, sulla terra. La fine del mondo per opera dell’uomo è possibile. Non so se vi rendete conto che cosa significa un mondo in cui una delle tre dimensioni del tempo, il futuro, non esiste più. Ma nel momento stesso in cui il mondo è senza avvenire, perdono significato anche il presente e il passato» (Etica della potenza ed etica del dialogo, in «Vita e Pensiero», marzo 1983, p. 29). La presa d’atto di quella condizione – che ancora oggi descrive il quadro entro cui collochiamo il nostro modo di intendere un futuro assediato dalla catastrofe – è forse la cifra con cui interpretare l’intera riflessione di Bobbio sulla guerra. Perché – come il filosofo torinese ebbe modo di osservare, proprio ricordando l’impatto del testo di Anders – è la novità della ‘condizione atomica’ a sottrarre la ricerca dell’uscita dal labirinto agli ‘esperti’ della politica internazionale, e a renderla una necessità autenticamente ‘politica’: «C’è in quel libro una battuta polemica contro gli esperti che non ho mai dimenticata. Un interlocutore si rivolge all’autore con questa domanda: “Perché non lascia tutta la faccenda ai signori che se ne intendono?” “Per una ragione molto semplice – risponde –: questi signori non esistono”. L’altro ribatte: “C’è sempre un competente in ogni ramo” “Ma già questa è la cosa più terribile: che lei consideri la distruzione del mondo come un ramo fra gli altri”».
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