di Alessandro Rico
Nell’epoca in cui tutti si proclamano liberali e il liberalismo ha inevitabilmente perso la sua specificità, sembrano lontani gli anni delle polemiche Croce-Einaudi o Sturzo-La Pira sulla libertà economica, gli anni delle utopie socialiste o del New Deal di Roosevelt. Eppure il liberalismo non è stato sempre mainstream. La crisi del ’29, per tanti aspetti paragonabile a quella presente e ugualmente invocata come prova dell’«instabilità del capitalismo», fu infatti il momento culminante di un progressivo declino del liberalismo, iniziato nel secolo XIX. Gli intellettuali liberali avevano smesso di apportare contributi originali; l’analisi di Marx, la cui potenza era legata all’uso degli stessi strumenti dell’economia classica, aveva intaccato la fiducia nel laissez faire e nelle istituzioni «borghesi»; si andava diffondendo la convinzione, poi suffragata dalla Rivoluzione d’ottobre, che il capitalismo fosse di per sé destinato all’implosione e che, se non si voleva scivolare nell’autoritarismo, bisognava accogliere le istanze della tradizione democratica e del socialismo. Alla fine degli anni ’70, complici lo stallo dell’economia keynesiana e del modello socialdemocratico, il liberalismo conobbe comunque una graduale rinascita, recuperando i suoi principi più autentici. Nella forma del Classical liberalism, fu “ristrutturato” dalla Scuola Austriaca, sulla base del marginalismo e dell’individualismo metodologico, ma soprattutto grazie alla tenacia intellettuale di Friedrich von Hayek, che con un organico “sistema della libertà” divenne il principale artefice della rivalsa liberale, divenuta impetuosa negli anni ’80, addirittura dirompente dopo il crollo del muro di Berlino e la sconfitta storica del comunismo. Oggi, soffocato da una recessione mondiale, il “vento liberale” sembra affievolirsi di nuovo; ed è pertanto quanto mai opportuno tracciare un bilancio della storia del liberalismo classico, del quale ci viene troppo spesso consegnata un’immagine caricaturale, spregiativamente ridotta all’etichetta di “neoliberismo”. Ciò vale particolarmente in Italia, dove la tradizione liberale ha faticato ad attecchire, stretta tra il marxismo e una cultura cristiano-sociale diffidente verso il mercato e ancorata a logiche redistributive. Giunge allora in soccorso il libro di Antonio Masala, Crisi e rinascita del liberalismo classico, ETS, Pisa, 2012, pp. 340, che riesce nell’impresa di coniugare chiarezza, esaustività e precisione.
Il saggio è articolato in cinque capitoli: da una rassegna degli attacchi subiti dal Classical liberalism nella prima metà del ’900, alle trasformazioni cui lo spinsero quelle critiche, agli snodi che affrontò prima di trovare nuova linfa (l’analisi del totalitarismo, il confronto con la tradizione democratica, la teoria della genesi degli ordini sociali). Masala ripropone le tesi di autori come Strauss, Wolin e Hallowell, che deploravano una presunta deriva relativistica del liberalismo, ridottosi secondo loro a storicismo avalutativo o mero economicismo e divenuto così incapace di arginare la decadenza della filosofia politica, segnata dagli abusi dei teorici del totalitarismo.
Masala ripercorre i momenti salienti della rinascita del liberalismo. Anzitutto, la critica che Mises, Hayek e Popper già negli anni ’40 avevano indirizzato ai totalitarismi: essa dimostrava che la crisi della filosofia politica non dipendeva dai difetti del liberalismo, semmai da un suo snaturamento o da un suo completo rigetto. Il tratto originale di quella riflessione stava nell’aver ricondotto fascismo, nazismo e comunismo a radici intellettuali comuni, cioè a una mentalità antiliberale, che Mises ascriveva all’incapacità di comprendere il libero mercato e di accettare la dura disciplina della concorrenza – e alla rinuncia, da parte dei liberali, a una strenua battaglia ideologica; mentre Hayek, anche se in modo meno radicale di Mises, segnalava i pericoli dell’uso del potere politico per perseguire la perequazione economica; e Popper, di cui Masala mette giustamente in dubbio l’adesione a un ortodosso liberismo, sviluppava le considerazioni sul razionalismo critico e lo storicismo, formulate pure da Hayek in The Counter-Revolution of Science.
L’altro momento dell’anabasi del Classical liberalism è il confronto con la teoria democratica, imposto dalla storia e complicato dall’ambiguità della democrazia: che da un lato, poteva apparire un naturale completamento del liberalismo (secondo la lettura di Bobbio), dall’altro rischiava di rivelarsi, se le si fosse attribuita una sostanza etica, uno strumento buono tanto per il liberalismo che per il socialismo (questa era l’allarmante osservazione di Schumpeter). Tale sfida intellettuale costringeva il liberalismo a ridefinire le sue categorie, a cominciare dal concetto di libertà, su cui lavorò Isaiah Berlin, con la fortunata distinzione tra libertà negativa e libertà positiva, l’una caratteristica del liberalismo, l’altra (intesa come autonomia) della tradizione democratica. In questo quadro si colloca anche il tema hayekiano della rule of law, che Masala sviluppa richiamando le critiche di Bruno Leoni alla rappresentanza democratica e alla sovrapproduzione legislativa e il riferimento del pensatore torinese al “diritto vivente”, non cristallizzato nei codici, ma scoperto dai giudici sulla base delle stratificazioni giurisprudenziali.
È tuttavia nell’ultimo capitolo che l’autore si addentra nella questione decisiva per rinascita del liberalismo classico: si tratta dell’origine degli ordini sociali e della funzione che nel loro sviluppo esercita la politica. Non manca il cenno ai filosofi che per primi adottarono la soluzione spontaneistica, anzitutto Mandeville e Smith; ma soprattutto Masala torna su Mises, Hayek e Leoni. L’autore ricostruisce meticolosamente la teoria hayekiana degli ordini spontanei, cominciando dagli studi psicologici, che confutavano le pretese di onniscienza della mente umana; passando per il cruciale Economics and Knowledge, in cui si affacciava l’interpretazione del sistema di mercato come meccanismo di comunicazione, che mette a frutto le conoscenze parziali degli individui, mediante la guida impersonale dei prezzi; per giungere infine all’estensione delle acquisizioni epistemologiche alla teoria politica, con la critica del razionalismo astratto o costruttivismo (la pretesa che gli ordini sociali siano il frutto di un progetto deliberato) in nome del razionalismo evoluzionistico, che vede nelle istituzioni sociali il prodotto spontaneo e inintenzionale delle interazioni individuali. Si compie così il percorso iniziato dalla rivoluzione marginalista, proseguito dalla prasseologia di Mises, diventato sistematico nelle mani di Hayek e arricchito dalle intuizioni di Leoni, culminato nel ritorno del Classical liberalism al centro dell’agenda politica, con Reagan e Thatcher.
Solo due scelte, a mio giudizio, possono essere rimproverate all’autore: in primo luogo, l’esclusione di Rothbard dalla rassegna degli attacchi al liberalismo “relativista” (le argomentazioni del filosofo americano, sostenitore dell’«assolutismo etico» e del recupero del diritto naturale, sarebbero state tanto più pertinenti, poiché interne, se non al Classical liberalism, almeno alla galassia Libertarian). E in secondo luogo, l’aver presentato eventi quali la Grande Depressione o la crisi del ’29 come epifenomeni di un clima intellettuale, mentre furono concause del declino e poi del riscatto del liberalismo. Paradigmatica è la figura di Keynes: consacrato custode della nuova ortodossia economica “interventista” dopo il martedì nero, poi screditato dalla stagflazione dei primi anni ’70, che scuoteva le fondamenta della sua teoria.
Ma il saggio di Masala non si limita a un’accurata ricostruzione della rinascita del liberalismo classico; esso ha anche il pregio di delineare prospettive di ricerca e stimolare domande fondamentali. La rinascita è davvero definitiva? Oppure, negli anni di una nuova crisi mondiale, il liberalismo è destinato a soccombere ancora sotto le sferzate di nuove offensive ideologiche? E di fronte a queste deve difendersi con i soli strumenti della teoria, o peggio, della prassi economica, o deve ricostruire una «buona ideologia», come voleva Mises? E una buona ideologia può cercare una convergenza con quelle tradizioni culturali, che a loro volta combattono lo statalismo e il relativismo, come quella cattolica? In tal caso, deve tenersi alla specificità di un liberalismo evoluzionista, o ridiscutere il rapporto tra spontaneismo e giusnaturalismo? Sono interrogativi che testimoniano come la forza del liberalismo risieda nella sua vitalità intellettuale, nella sua capacità di raccogliere le sfide dei tempi, tenendo però dritta la barra dei suoi principi. Ciò che paradossalmente riconosceva proprio Keynes: «Le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo è governato da poco altro. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto».
Commento (1)
Tullio Pascoli
Cari amici,
due righe per rinnovare la diffusione di quello che forse è l’elenco più completo del Web di AUTORI LIBERALI E LE LORO OPERE. Qui, potrete realizzare ricerche sui titoli dei più distinti autori di diverse inclinazioni del pensiero libero.
E’ oltremodo facile accedervi: basta spostare il cursore sul nome degli autori nel Link qui riprodotto e la pagina indicherà le rispettive opere, anche se non tutte:
http://www.dataplug.net
L’iniziativa intende consolidare un nuovo paradigma: non tutti gli intellettuali e pensatori sono di sinistra; infatti, prima che Ronald Reagan e Margaret Thatcher dessero l’ultima spinta al muro di Berlino, provocando il definitivo crollo dell’utopia marxista, gli indottrinati di quella deleteria filosofia avevano creato il mito secondo cui solo i militanti dell’ideologia egualitaria potevano far parte dell’esclusivo Pantheon della loro legittimata intellettualità.
L’elenco di autori liberali, quindi, redime l’ambiguo equivoco e propone più di 600 autori e forse oltre 2.000 opere ispirate alla difesa delle libertà individuali.
Riconosco che alcuni autori non riscuotono l’unanime consenso; ma non è facile determinare il limite di un grado di liberalità. Perciò, spero di non sbagliare includendo nomi e titoli sui quali si può non essere del tutto d’accordo, mentre ho accettato d’includerne altri su segnalazione di alcuni gentili lettori.
Consapevole dell’imperfezione dell’elenco, spero che altri lettori possano dare un loro contributo, indicando altri autori ed opere. Forse, chi s’associa all’idea dell’utilità di ridimensionare il dominio di quella cultura di sinistra, vorrà divulgare questi autori fra altrettanti amanti della Libertà e di chi coltiva i principi di tolleranza.
Cordialmente, Tullio