di Alessandro Campi

Potremmo definirla la mistica e la magia delle origini. È tipico di tutti i movimenti politici “rivoluzionari” (e Forza Italia ha avuto qualcosa di rivoluzionario allorché è comparsa sulla scena nazionale, scompaginandone le regole) cercare di sollevarsi dai propri fallimenti e di far dimenticare le delusioni prodotte nei propri seguaci tornando al passato, alla purezza originaria, al momento esaltante in cui tutto ebbe inizio. E’ un modo per uscire dalle difficoltà del presente e per ritrovare, almeno nelle intenzioni, l’energia e l’entusiasmo dei militanti.

Si spiega così la fissazione (peraltro periodica) di Berlusconi a voler rimettere mano al marchio con cui iniziò, nell’ormai lontano 1994, la sua avventura politica: appunto Forza Italia. Al Cavaliere la dizione Popolo della libertà, adottata ufficialmente nel 2009, non piace; e comunque non si è rivelata vincente e felice, anche se bisognerebbe ricordare che anche questa sigla è stata una sua invenzione, presentata al mondo in occasione della cosiddetta “rivoluzione del predellino” (novembre 2007).

La storia c’insegna tuttavia che il richiamo nostalgico e romantico al passato quasi sempre non funziona, almeno in politica. Nel caso di Berlusconi, poi, sulle sue spalle ci sono vent’anni del corso dei quali la gran parte delle sue promesse elettorali e dei suoi proclami ideologici (a partire dalla tanto sbandierata “rivoluzione liberale”) si sono arenati o risolti in un fallimento; e nel corso dei quali la sua immagine pubblica – tra scandali privati e processi pubblici – si è oltremodo logorata; senza ovviamente contare il peso degli anni che sono trascorsi inesorabili e che nessuna magia chirurgico-estetica può nascondere del tutto (se sei un nonno non puoi fare il giovanotto, rischi di diventare patetico agli occhi del prossimo).

Ne consegue che il problema del partito berlusconiano – specie alla luce delle due sonore batoste elettorali rimediate alle politiche di febbraio e alle recenti amministrative – non è di brand, di sigla o di marchio. Ma semmai di idee e di programmi, nonché di uomini. Se è vero, come dicono i suoi fedelissimi, che solo con Berlusconi si può vincere, è anche vero che con il solo Berlusconi non si va da nessuna parte (al massimo di sopravvive); e dunque servirebbe un gruppo dirigente diverso da quello che attualmente lo circonda, meno aggressivo, meno ligio unicamente ai suoi voleri, più giovane e dinamico e magari, viste certe facce non proprio raccomandabili che girano dalle parti del Pdl (romano e periferico), anche esteticamente e politicamente più presentabile.

Il problema è come scegliere e selezionare una nuova classe dirigente in un partito in cui tutto viene calato dall’alto: dai nomi degli eletti a quelli dei coordinatori regionali. La cooptazione è una antica tecnica di scelta e promozione, ma se è l’unica rischia di produrre una selezione contraria al merito e alle capacità individuali, stante la tendenza degli uomini di potere a scegliersi i collaboratori secondo il criterio della fedeltà e non secondo quello della competenza (lasciamo perdere poi l’autonomia e l’indipendenza). Ci vorrebbe, accanto alla cooptazione, la competizione, vale a dire il conflitto ma ovviamente sulla base di regole e procedure che il Pdl semplicemente non ha o non applica.

E in effetti Berlusconi pare si stia occupando non solo del nome del suo partito, ma anche di dargli un assetto organizzativo-gestionale diverso dall’attuale. Non tuttavia per renderlo più democratico e competitivo al suo interno, più pluralista e dinamico, ma per farlo diventare più efficiente sul terreno del reperimento di risorse e denari. Prima di altri, il Cavaliere ha capito che i soldi pubblici ai partiti diverranno sempre meno, se non spariranno del tutto, e dunque sembra essersi inventato quest’idea di trasformare i coordinatori regionali del partito in fund raiser, ognuno col suo budget da rispettare sul territorio di competenza, come se fossero i capi-area di un’impresa commerciale.

Un’evoluzione, la si potrebbe definire, del modello del partito-azienda, che è sempre stato nelle corde di Berlusconi sin da quando affidò la nascita di Forza Italia agli agenti di Publitalia coordinati da Marcello Dell’Utri. Anche questo sembrerebbe dunque un ritorno al passato, tanto più che queste nuove figure di coordinatori-reperitori di fondi dovrebbero essere, nelle sue intenzioni, degli imprenditori o dei manager, non dei politici di professione.

I cittadini – argomenta Berlusconi – non si fidano più dei politici (e hanno sicuramente ragione). Ma non si fidano nemmeno dei professori e dei cosiddetti tecnici o esperti (e anche su questo hanno ragione). Resta da capire però perché dovrebbero fidarsi di imprenditori e manager, visto che l’esperienza di molti di loro, quando sono entrati in politica nel corso degli anni, è stata anch’essa fallimentare o scialba. Peraltro i nomi che Berlusconi avrebbe in testa non sono di imprenditori qualunque, ma di “pezzi grossi”: Barilla, D’Amato, Benetton, Marchini. Peccato che – interpellati dalla stampa – nessuno di essi si sia dichiarato interessato al progetto. In effetti non dev’essere una prospettiva esaltante, per un imprenditore in carriera e di buon nome, quella di mettersi a raccogliere soldi sul territorio agli ordini di Berlusconi e per conto di quest’ultimo. Per fare cosa poi? Per promettere di nuovo come imminente la “rivoluzione liberale”?

Ad ogni modo, sul suo partito – su come organizzarlo e farlo funzionare – Berlusconi ha cambiato idea un’infinità di volte e ha fatto un’infinità di esperimenti. Qualcuno si ricorda più dei Circoli della libertà della Brambilla, dei cambiamenti di statuto ora per fare il “partito degli elettori” ora per fare il “partito leggero” senza iscritti e apparati, dei Promotori della libertà che avrebbero dovuto “vendere” porta-a-porta il programma del partito in occasione delle elezioni o delle altre trovate di marketing (alcune peraltro vincenti) che il Cavaliere ha avuto nel corso degli anni? E dunque potrebbe cambiare idea anche stavolta o farci sapere di averci ripensato e di voler lasciare tutto come si trova. Su una sola cosa da vent’anni abbiamo una granitica certezza: che il partito (comunque si chiami) è suo, lui ne è il capo-padrone assoluto e guai a chi glielo tocca.

 

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