di Andrea Falconi

L’ultima tornata elettorale iraniana, svoltasi tra il 15 e il 16 giugno, ha visto la vittoria dell’unico candidato riconducibile alla sfera moderata, Hassan Rouhani, con una percentuale pari a circa il 50% che gli ha garantito l’elezione senza bisogno di ricorrere al secondo turno.

Nei giorni precedenti alle elezioni, erano state molte le voci che parlavano di una probabile esplosione del malcontento popolare relativo a possibili brogli, così come accaduto nel 2009, quando la rielezione di Mahmud Ahmadinejad aveva determinato la nascita del cosiddetto “Movimento Verde”, capeggiato dai candidati sconfitti Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, tutt’ora agli arresti domiciliari.

Ciò non è avvenuto, e allo stesso tempo, la vittoria dell’unico candidato favorevole a mantenere aperti i canali di dialogo con l’Occidente, essenziali per l’ammorbidimento delle sanzioni internazionali e il rilancio della disastrata economia iraniana, lascia intendere come Rouhani rappresenti, agli occhi della popolazione, l’unico Presidente in grado di garantire l’uscita dalla crisi.

Gran parte dei media occidentali, dunque, hanno applaudito tale vittoria come un segnale di forte cambiamento della politica iraniana, arrivando anche a sostenere, in alcuni casi, come l’elezione di Rouhani si ponga in totale rottura con il conservatorismo della leadership religiosa, quasi come se le ultime elezioni abbiano rappresentato un confronto tra un presunto blocco democratico-moderato ed uno conservatore di stampo islamista.

In realtà, la possibilità che l’elezione di Rouhani rappresenti l’avvio di un processo di democratizzazione della Repubblica Islamica e della definitiva normalizzazione dei rapporti con il resto della comunità internazionale, andrebbe considerata cum grano salis.

Ciò che è vero è che negli ultimi anni, a causa delle sanzioni, l’economia iraniana ha mostrato indicatori economici sempre più preoccupanti, con pesanti ricadute sulla popolazione. Il regime di embargo, applicato direttamente dagli Stati Uniti e dai maggiori Paesi europei, ha fatto crollare le esportazioni del greggio, principale fonte di introiti della Repubblica Islamica.

Tale diminuzione non è stata bilanciata da una proporzionale crescita delle forniture sui mercati cinese e indiano, così come auspicato dai vertici politici ed economici iraniani. I due giganti asiatici, infatti, hanno mantenuto invariata la loro percentuale di importazione del greggio iraniano, soprattutto a fronte di un forte aumento del prezzo dovuto alle sanzioni. Ciò ha fatto sì che il sistema bancario nel suo complesso sia stato messo in crisi dalla mancanza di liquidità, innestando così una reazione a catena che ha portato alla forte svalutazione del Rial iraniano, precipitato a circa un quarto del suo valore in meno di due anni, ed all’aumento dell’inflazione, attualmente attestata sul tasso del 40% annuo, il più alto mai raggiunto negli ultimi 18 anni.

Il tasso di disoccupazione, praticamente inesistente negli anni scorsi, secondo le stime dei maggiori istituti di rating internazionali sarebbe ora ipotizzabile attorno al 25-30%. Il mercato nero e l’economia di sussistenza, valvole di sfogo della disoccupazione ufficiale soprattutto nei Paesi la cui economia è fortemente basata sul settore rurale, non risultano capaci di ridurre gli effetti del calo del lavoro, laddove il 70% circa della popolazione iraniana vive nelle aree urbane.

Con queste precondizioni, dunque, risulta maggiormente comprensibile come sulla scelta popolare abbia influito, in via quasi esclusiva, il riverbero della crisi economica. Al margine della competizione elettorale sono rimasti tutti i maggiori temi su cui verte l’attuale contrasto tra una parte della comunità internazionale e la Repubblica Islamica, quali la dicotomia tra il fronte riformista e quello conservatore, lo sviluppo del programma nucleare e missilistico e l’orientamento aggressivo della politica estera.

Ciò è dovuto in particolar modo agli equilibri interni della politica iraniana, i quali devono essere considerati nel loro complesso per comprendere al meglio i risultati di tali elezioni ed evitare così facili entusiasmi relativi ad una presunto processo di democratizzazione del Paese.

Innanzi tutto, l’equilibrio di poteri della Repubblica Islamica prevede che il vero decisore politico sia l’Ayatollah Khamenei e le élite religiose riconducibili ai 12 membri del Consiglio dei Guardiani, mentre il Presidente risulta essere una carica subalterna, cui spettano solamente funzioni esecutive delle politiche decise dalla leadership religiosa. Il nuovo Presidente, dunque, non avrà responsabilità su tutte quelle questioni considerate indissolubili dalla natura stessa dello Stato e assegnate alla Guida Suprema, quali l’orientamento della politica estera, l’impiego delle forze armate o i programmi di sviluppo nucleare. A livello costituzionale, infatti, il principio del Velayat-e Faqih (“tutela del dottore della legge”), assegna la quasi totalità dell’esercizio della sovranità all’Ayatollah, considerato come il massimo conoscitore della legge islamica e l’unico in grado di orientare le decisioni politiche.

La leadership politica iraniana può essere più o meno forte, ma è sempre costretta a muoversi entro i margini di una politica decisa in maniera esclusiva da quella religiosa. Ciò determina il paradosso secondo cui un Presidente riformista è sovente meno capace di ammorbidire la politica estera iraniana rispetto ad uno proveniente dall’ala conservatrice moderata, grazie al fatto che quest’ultimo ha la possibilità di condividere le scelte di orientamento politico con la Guida Suprema, salvo poi renderle esecutive in maniera più lieve rispetto alle pretese dell’Ayatollah.

In seconda istanza, sulle elezioni ha influito fortemente il controllo del Consiglio dei Guardiani, cui la Costituzione assegna il potere di escludere dalla competizione elettorale tutti quei candidati invisi al regime. Dopo una prima scrematura degli oltre 40 candidati, tra cui il riformista con maggiori probabilità di vittoria, l’ex-Presidente Akbar Hashemi Rafsanjani, la lista è stata ridotta a otto candidati, di cui uno solo riconducibile alla sfera riformista, Mohammad Reza Aref. Tuttavia, a pochi giorni dalle elezioni, lo stesso Aref e il conservatore moderato del Partito Isargaran, Gholam-Ali Haddad-Adel, hanno scelto di ritirarsi dalla competizione, lasciando il fronte riformista del tutto privo di propri candidati. La scelta è stata determinata dalla volontà di appoggiare Hassan Rouhani, considerato come un centrista e possibile canalizzatore di un supporto bipartisan. Gli eccellenti rapporti tra questi e i Presidenti Rafsanjani (1989-1997) e Khatami (1997-2005), sono stati dunque determinanti per il conseguimento di una vittoria con un tale margine di vantaggio.

Queste indicazioni permettono di capire come Rouhani non possa essere considerato affatto un potenziale avversario della leadership religiosa. Infatti, qualora fosse esistita la possibilità che la sua nomina potesse determinare un ammorbidimento della politica iraniana riguardo allo sviluppo nucleare e alla radicalizzazione della politica estera, la candidatura di Rouhani non sarebbe mai passata attraverso le strette maglie del controllo del Consiglio dei Guardiani.

Inoltre, bisogna considerare come la stessa figura di Rouhani risulti indissolubilmente legata alla leadership religiosa. Hassan Feridon “Rouhani” (“il Clerico”), esperto di diritto islamico, è uno dei primi esponenti del movimento che nel 1979 rovesciò il regime dello Scià Reza Pahlavi, dando vita alla Repubblica Islamica. Considerato come il vero e proprio braccio destro dell’Ayatollah Khomeini, è stato più volte a capo dell’Assemblea legislativa iraniana, la cosiddetta Majlis, e Segretario del Consiglio Supremo della Sicurezza Nazionale per 16 anni. Inoltre, ha ricoperto vari incarichi nell’ambito della Difesa, tra cui quelli di Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica e della Difesa iraniana e negli anni della Guerra Iran-Iraq.

L’avallo da parte della leadership religiosa all’elezione di Rouhani, inoltre, sembra fondare le proprie basi sulla sua fama di negoziatore, grazie alla quale, tra il 2003 e il 2005, il clerico di Semnan è stato incaricato di dirigere le trattative tra la Repubblica islamica e l’AIEA relative al monitoraggio internazionale del programma nucleare iraniano.

In tale ottica, l’elezione di Rouhani potrebbe quindi rappresentare l’offerta di un segnale di distensione da parte della leadership, senza tuttavia che si intenda procedere ad un impegno effettivo in tal senso. Le preoccupazioni espresse dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu all’indomani delle elezioni sottolineano proprio quest’aspetto, ovverosia il timore che l’entusiasmo relativo alla nomina di Rouhani possa portare ad un ammorbidimento del regime delle sanzioni ed alla difficoltà dell’ala conservatrice israeliana e neo-con statunitense di tenere unito il fronte delle sanzioni.

Per tutti i motivi sovra menzionati, dunque, è facile comprendere come i temi caldi della politica iraniana, quali l’arricchimento dell’uranio per fini industriali (al 3,5%, impiegato come combustibile per Bushehr, l’unica centrale operativa iraniana) e per fini medici (20%, utilizzato nella radioterapia oncologica ma utile anche per scopi bellici), così come lo sviluppo missilistico, per incrementare il raggio d’azione dei missili iraniani Shahab fino ad includere lo Stato d’Israele e il territorio dell’Arabia Saudita, non saranno certo messi in discussione dal nuovo Presidente.

La vittoria di Rouhani, dunque, testimonia in prima istanza la volontà della popolazione di procedere ad un cambio della politica estera, in funzione della ricerca di un’uscita dalla crisi economica. Da parte della leadership, invece, l’elezione di un candidato nominalmente moderato, ma pur sempre conservatore, segna un nuovo punto a favore del regime di Teheran per prendere tempo nei confronti della comunità internazionale. L’allentamento delle sanzioni, infatti, permetterebbe di portare avanti con maggiore tranquillità i programmi di sviluppo nucleare, dal quale deriverebbe un immenso potere di contrattazione per il regime della Repubblica Islamica.

Per questi motivi, quello che ad occhi inesperti appare come un segnale di forte cambiamento nella vita politica iraniana, si risolve in realtà in un’ulteriore mossa dell’Ayatollah per mettere al sicuro il programma di sviluppo di una deterrenza nucleare credibile. In sostanza, l’elezione di Rouhani rappresenta una rivisitazione implementata del vecchio adagio gattopardiano: cambiare tutto affinché si possa prendere tempo perché niente cambi.

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