di Federico Donelli
Le manifestazioni di protesta in Turchia delle ultime settimane fanno emergere diversi spunti di riflessione sul futuro scenario di politica interna, soprattutto per quelle che potrebbero essere le ripercussioni sulla stabilità regionale.
Le proteste che hanno portato per strada centinaia di migliaia di persone difficilmente avranno rilevanti conseguenze nel breve periodo sul governo guidato dal Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan e altrettanto difficilmente, nonostante gli auspici (forse eccessivi) di parte della stampa occidentale, agevoleranno l’ascesa di un qualche movimento liberale (nell’accezione occidentale del termine). Infatti, se si andasse ad elezioni, Erdoğan e il suo partito Giustizia e Sviluppo (AKP) otterrebbero agevolmente oltre il (48%) delle preferenze. Il dato è indicativo dell’appoggio di una maggioranza “silenziosa” e passiva che per la prima volta è anch’essa scesa in piazza per mostrare il proprio appoggio ad Erdoğan. Una maggioranza che gode da oltre un decennio dei molti benefici portati dalle politiche dei governi AKP. Detto questo occorre necessariamente tenere conto anche di un ulteriore elemento, ossia che l’appoggio incondizionato al partito non comporti un’implicita condivisione delle scelte adottate da Erdoğan in risposta alle proteste. La sua reazione è apparsa confusa, irrazionale mossa da frustrazione e rabbia dettate soprattutto al fatto di venire accostato a Mubarak, Ben Alì o, peggio, a Bashar al-Assad. L’assenza di lucidità gli ha impedito di valutare le possibilità di giungere ad un compromesso con le richieste dei manifestanti, scalfendone così l’immagine a livello nazionale e, cosa anche più grave per il suo considerevole narcisismo, in campo internazionale dove a pesare sono state le accuse di complotti orditi da non meglio precisati governi stranieri. Il primo dato politico rilevante è quindi che per la prima volta in oltre dieci anni di governo Erdoğan abbia mostrato alcuni segnali di perdita del controllo e della gestione di uno stato di crisi interno al Paese, cosa mai successa nemmeno nel travagliato 2007 anno della scoperta del complotto ultra-nazionalista denominato Ergenekon.
Il secondo dato che a lungo termine potrebbe avere ripercussioni ben più rilevanti sul futuro della Turchia è che da diversi mesi si avvertono i segnali di un lento ma progressivo sfaldamento interno al partito di governo AKP con la formazione di due correnti alternative e contrastanti: quella legata al Presidente della Repubblica Abdullah Gül e quella vicina e fedele ad Erdoğan. Lo scontro ruota intorno non tanto alla guida del partito quanto alla futura guida del Paese; da quasi tre anni una Commissione parlamentare prepara una bozza costituzionale atta a riformare la struttura istituzionale della Turchia, dal sistema parlamentare a quello presidenziale, o più precisamente ad un semipresidenzialismo alla francese con elezione diretta del capo dello Stato. L’intento del Primo Ministro sarebbe quello di riuscire a far approvare la riforma costituzionale entro le prossime elezioni presidenziali, si terranno nel 2014, e di presentarsi come candidato del partito; a quel punto nulla gli vieterebbe di rimanere in carica per due mandati arrivando a governare il Paese fino al 2024, esattamente un anno dopo il significativo centenario della Repubblica. I piani di Erdoğan si scontrano però non solo con la volontà di Gül, appoggiato da esponenti dell’ala “liberale” del partito (tra cui spiccano Suat Kiniklioglu e Abdullaatif Sener) di dare battaglia sulla futura candidatura, ma anche su una sempre più consistente componente del bacino elettorale AKP che vede in Gül una figura più moderata e pronta al dialogo rispetto all’intransigente e, a tratti, autoritario Erdoğan. Un malessere manifestato apertamente dal leader della più potente comunità religiosa presente in Turchia, il movimento musulmano guidato dal predicatore Fethullah Gülen che ha rappresentato in questi anni non solo il riferimento ideologico religioso dell’elettorato AKP ma anche il principale alleato di Erdoğan nella lotta di potere contro il vecchio establishment kemalista. A mutare in maniera preoccupante, secondo la corrente più liberale, è la direzione del discorso politico del Primo Ministro, con sfumature sempre più xenofobe, anti-occidentali e anti-globalizzazione, volte al mantenimento dello status quo, tutti temi fino a pochi mesi fa appannaggio dei nazionalisti kemalisti da lui stesso sfidati. Nonostante appaia improbabile se non impossibile che il movimento tolga il proprio appoggio al partito, che tuttora riflette più o meno implicitamente i suoi interessi, è probabile che in una eventuale scelta futura, il sostegno vada a ricadere sulla figura di Gül piuttosto che su quella di Erdoğan.
Il secondo dato politico rilevante che emerge è quindi quello di un partito che pur detenendo una vastissima maggioranza, anche grazie all’assenza di reali e credibili alternative, rischia di dover affrontare una pericolosa crisi interna. Una sfida tra Gül ed Erdoğan, minerebbe non solo la riconferma di un esecutivo forte a guida AKP ma anche l’immagine della Turchia a livello internazionale, rimettendo in discussione il tanto studiato e ammirato modello turco, favorendo invece la sua principale alternativa nella regione, cioè l’avanzata di regimi più marcatamente islamici appoggiati (o plasmati) dall’Iran o dalle petromonarchie del Golfo.
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