di Leonardo Varasano*
Incline alla scaramanzia e al superomismo, prona al mito dell’efficienza continua, la società postmoderna cerca in ogni modo di esorcizzare la sofferenza e la morte. Ci si sente invincibili, ci si illude di potere tutto per un numero elevatissimo di anni, ci si dimentica della tenue fragilità della vita. Il dolore, in una simile temperie culturale, è il grande innominabile, il lemma “malattia” – e peggio ancora il termine “cancro” – va solo sussurrato, è quasi un’espressione sconveniente, circondata da tabù, reticenze e gesti inutilmente apotropaici (a cominciare dalla vuota scaramanzia del toccare ferro, o altro).
La morte entra a far parte del discorso pubblico solo quando fa notizia, quando è violenta, clamorosa o suscita scandalo. La sofferenza non si racconta, quasi fosse contagiosa. In un’epoca spudorata e “disinibita”, come quella in cui viviamo, la malattia e la fine della vita diventano così l’ultimo – e forse un po’ ipocrita – vestigio del pudore perduto. In un mondo che non ci concede più un millimetro di privatezza, in un mondo in cui il Grande Fratello spia ogni nostro movimento, tutto, o quasi, finisce in piazza (meglio ancora se nell’agorà virtuale della rete), ad eccezione di ciò che più ci accomuna: l’esperienza, inevitabile, del dolore. La pesantezza di un fardello inaspettato che ci cade sulle spalle e che – come scrive Kundera – ci impone di lottare, costringendoci a mettere in conto l’eventualità della sconfitta, non risparmia nessuno. Quella pesantezza, più o meno dirompente, è egalitaria e livellatrice. Ciononostante si tende a non parlarne, a coprirla con una – pudica ma inutile – coltre di silenzio.
Nel suo ultimo libro, La fine del giorno (Rizzoli, 2013, pp. 160), Pierluigi Battista – una delle firme più note, acute e brillanti del giornalismo italiano – squarcia quella coltre. Il volume, agevole e ben scritto, altamente commovente ma non patetico, è il racconto dell’ultimo anno di vita della moglie Silvia: è la storia di mesi dolorosissimi che vanno dal momento in cui la donna scopre di avere un tumore inoperabile ai polmoni, a quando termina la sua vita e viene cremata.
Quello di Battista è un viaggio discreto dentro un dramma che dilania l’esistenza, separando un prima e un dopo. Nella ordinata vita della coppia irrompe il caos, la paura, il terrore. Dalla normalità devastata affiora un abisso di dolore. Ma il quadro che emerge è complesso e articolato, nel fetore dalla malattia nascono fiori profumati. Il Calvario è condiviso, la croce – per quanto umanamente possibile – viene portata in due. Il marito accompagna la sofferenza della moglie con carezzevole empatia e partecipazione profonda: nel momento della disperazione emergono con prepotenza l’umanità, le lacrime silenziose e gli abbracci infiniti, la profondità dell’amore. Certo, non mancano né il disorientamento, né il dubbio, né la rabbia (in particolare contro la medicina, che ha favorito la longevità sessuale ma non ha ancora una cura per i tumori).
Il trauma è più feroce e fulmineo del bombardamento di Dresda. Ma P., il protagonista del libro – ovvero lo stesso Battista -, partecipa alla “obbligatoria resistenza” di Silvia “succhiando le forze” che lei sa trasmettergli; vive un solidale senso di missione; si fa custode, accompagnatore, autista, consolatore, infermiere, badante, spalla e aiutante in campo della moglie. Di più: si nutre del coraggio e della avidità di vita della donna, abbandona il saggio che stava scrivendo – sulla smania senile per il sesso – e si dedica alla sterminata letteratura sul cancro, per riuscire a tradurre almeno un po’ dell’incomprensibile linguaggio medico. La sensazione di cedimento di fronte al dolore – una sensazione forte, che porta Battista, pur ancorato ad un solida razionalità, a comprendere chi si aggrappa alla speranza di qualche remota soluzione magica, giacché, scrive, “nella giostra tragica del ‘chi può dirlo?’, anche una colossale patacca poteva essere un appiglio” – convive con “il senso religioso delle Grandi Domande” che “ti afferra con un’urgenza prima sconosciuta”. Arriva così, d’improvviso, il momento in cui ci si accorge che la vita è un dono da apprezzare in ogni istante e che “Dio è presente nel pulviscolo dei fenomeni più minuti”.
Quando la donna muore, tutto – scrive il giornalista del Corriere della Sera – “ricomincia come se fosse l’anno zero”. Da zero, ma, a ben vedere, con un lascito prezioso. La vicenda di Silvia e Pierluigi – così come quella, analoga, di molti altri – non è infatti solo il racconto di un insopportabile dolore: è il romanzo di una sofferenza che sprigiona coraggio, umanità, amore.
*Contributo già apparso on line sul sito www.giornaledellumbria.it
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