di Andrea Falconi
Gli sconvolgimenti sociali in Egitto, iniziati con nuovi moti di protesta in Piazza Tahir e nelle maggiori città egiziane, hanno determinato in pochi giorni un nuovo cambio di regime nel Paese mediterraneo. Tramite un comunicato diramato a livello nazionale, infatti, Abdul Fatah Al-Sisi, Capo delle Forze Armate egiziane, nonché Ministro della Difesa, ha annunciato al Paese la destituzione del Presidente eletto, Mohamed Morsi. Il comunicato ha seguito di pochi minuti la scadenza di un ultimatum di 48 ore lanciato dagli alti esponenti delle Forze di Sicurezza egiziane, che invitava il Presidente a porre fine alle violenze nei confronti dei manifestanti.
A seguito della destituzione e all’arresto di Morsi, il Presidente della Corte Costituzionale egiziana Adly Mahmud Mansour ha assunto la Presidenza della Repubblica ad interim, in vista di nuove elezioni.
L’assetto politico egiziano appena rovesciato era nato a seguito della caduta del trentennale regime di Mubarak determinata dalle rivolte popolari del 2011, inserite nel più generale contesto di quelle che eufemisticamente furono definite “Primavere Arabe”. Allora come oggi, le proteste erano causate dai gravi problemi economici che attanagliano il Paese, quali la forte disoccupazione, il settore turistico in ginocchio e un approvvigionamento energetico e alimentare che non riesce a soddisfare i bisogni di quasi 90 milioni di persone, gran parte delle quali residenti nelle baraccopoli a ridosso del Cairo o nel Delta del Nilo, area grande pressappoco come la Toscana dove vivono circa 45 milioni di persone. Pertanto, le cause prime dei moti di piazza, in Egitto come in tutti gli altri Paesi arabi, sono da ricondursi a problematiche socio-economiche, quali la forte crescita demografica e la conseguente pressione sul mercato del lavoro, unite all’inefficacia delle misure redistributive.
A fronte di tale situazione, le attuali manifestazioni imputano al Governo di Morsi di non essere riuscito a provvedere al risanamento economico e di aver pensato, per tutta la durata del mandato presidenziale, a piazzare esponenti delle Fratellanza in tutti i settori della pubblica amministrazione, aumentando in questa maniera la corruzione generalizzata ed il nepotismo.
Di certo, sull’incapacità del Governo Morsi di procedere al rafforzamento delle politiche sociali e a un’adeguata redistribuzione della ricchezza ha pesato la scarsa fiducia da parte degli investitori internazionali, in primis le banche statunitensi, britanniche, israeliane e francesi. Il Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, ha più volte rimandato le trattative riguardanti un possibile prestito all’Egitto di 4,8 miliardi di dollari, utile per arginare il tracollo della fragile economia egiziana. Pertanto, l’unica misura possibile per Morsi è stata quella di ricorrere alle scorte statali, che sono state progressivamente svuotate. Un indice di tale deterioramento è dato dalla drastica riduzione delle riserve di valuta estera, passata dai 21 miliardi di dollari nell’ultimo anno di Mubarak ai circa quattro miliardi attuali.
Inoltre, i tentativi di Morsi di rendere più incisive le proprie politiche di risanamento statale hanno comportato propositi di riforma che avrebbero aumentato i poteri del Presidente a discapito del Parlamento, ponendo i decreti presidenziali al di sopra del controllo garantito dalla Corte Costituzionale egiziana. Tali misure sono state viste dalle opposizioni come un tentativo di svolta in senso totalitario del nuovo regime, e hanno generato preoccupazioni di varia natura nella comunità internazionale.
Il dissesto economico, unito alla crescente percezione dell’inefficienza statale, ha dunque innescato le proteste di piazza, in seguito raccoltesi sotto l’ombrello del Fronte di Salvezza Nazionale dell’ex Direttore dell’AIEA Mohamed al-Baradei, che raccoglie i partiti di opposizione liberale sconfitti alle elezioni del 2012. Le richieste dei manifestanti sono state sostenute dall’Esercito, che ha effettuato un colpo di Stato ed arrestato Morsi, oltre a vari esponenti della Fratellanza Musulmana.
Nell’incertezza della situazione, per comprendere i fatti egiziani è utile non abbandonarsi ai facili entusiasmi per una presunta rinascita democratica egiziana contro il radicalismo islamico, o alla voglia di seguire la contro-corrente della condanna di quello che, a tutti gli effetti, è un colpo di Stato contro un Presidente eletto, secondo il cinquecentesco principio del “cuius regio, eius religio”. Soltanto un’analisi scevra da tali considerazioni di carattere ideologico può permettere di analizzare al meglio una situazione che sembra cambiare troppo velocemente. Soprattutto, risulta utile individuare le parti in causa e comprendere l’evolvere della posizione e le strategie di lungo corso di ciascuna di esse.
I manifestanti che il 3 luglio hanno applaudito al comunicato di al-Sisi sono gli stessi che nel 2011, prima di cedere il faro della protesta ai movimenti islamisti, chiedevano la testa dei gerarchi militari egiziani, colpevoli di aver reiterato per decenni le politiche oppressive del regime di Mubarak. Alle elezioni presidenziali del 2012, che hanno spianato la strada alla presa del potere da parte di Morsi, la sconfitta elettorale di Ahmed Shafiq, ex Primo Ministro sotto Mubarak, era stata determinata proprio dall’incapacità delle Forze Armate di attrarre su di sé i voti dei partiti liberali, proprio a causa delle connivenze tra i militari e il vecchio regime.
La classe politica appena destituita, Morsi e gli altri esponenti del partito Libertà e Giustizia, ala politica della Fratellanza Musulmana, è la stessa che ha cavalcato le proteste di piazza del 2011 per prendere il potere e porre fine all’ostracismo politico cui era sottoposta dalle Forze Armate egiziane. Come avvenuto anche in Libia e in Siria, infatti, i movimenti islamisti egiziani non sono i primi animatori delle proteste del 2011, ma solamente una fazione ben organizzata che è riuscita a prendere in mano un potere del quale, per peso psicologico e strategico, nessuno aveva il coraggio di assumersi la responsabilità. L’ascesa dei Fratelli Musulmani, banditi dal sistema politico egiziano fin dagli anni di Nasser, infatti, ha rappresentato quasi una riproposizione della Rivoluzione di Febbraio di circa un secolo prima, con la differenza che la definitiva presa del potere, la Rivoluzione d’Ottobre dei bolscevichi, ha avuto in Egitto il volto delle “libere elezioni democratiche” del maggio 2012.
Il timore maggiore riguarda la possibilità che l’esclusione manu militari dei Fratelli Musulmani dal Governo possa far confluire gran parte dei suoi esponenti nei movimenti jihadisti egiziani, determinando un’incontrollabile deriva radicale del movimento
Le Forze Armate, dal canto loro, sono sopravvissute alle purghe della Fratellanza Musulmana, che avevano comportato la rimozione dall’incarico di vari ufficiali nell’agosto del 2012, tra cui il Ministro della Difesa Mohamed Hussein Tantawi e il Capo di Stato Maggiore Sami Hafez Anan, sostituiti da Abdul Fatah al-Sisi, attuale esecutore del colpo di Stato.
In tale ottica, le Forze Armate egiziane hanno dimostrato di seguire una politica indipendente dalle personalità al comando, agendo in virtù del loro ruolo kemalista di guardiani del laicismo. La loro politica, dal 2011, è stata quella di una ritirata strategica di fronte all’avanzare della Fratellanza Musulmana, una spregiudicata scommessa che ha comportato varie fasi: innanzi tutto, la rinuncia alla difesa a tutti i costi di Mubarak e il tacito assenso alla sua destituzione; in seguito, il timido tentativo di sondare il campo presso la popolazione con la candidatura di Shafiq alle elezioni del 2012, apparse agli occhi di molti come un tentativo di capire il reale peso della Fratellanza e il proprio consenso presso l’elettorato egiziano. Quando è apparso chiaro che non avrebbero avuto l’avallo legale per battere per via elettorale la Fratellanza Musulmana, le Forze Armate hanno lasciato che la Fratellanza governasse, per poi tornare alla carica non appena la popolazione se ne fosse stancata. In questa maniera, quello che prima rappresentava l’allettante sirena di un movimento sociale funzionante, ma che non doveva confrontarsi con la vera politica, è stato sottoposto alla dura realtà dei fatti, complicata dal mancato appoggio dei partner internazionali che, durante il vecchio regime, garantivano la sopravvivenza di Mubarak, Stati Uniti ed Israele in primis.
Il piano delle Forze Armate, altamente rischioso, è stato talmente ben congegnato da gettare alcune ombre su un probabile appoggio esterno, il quale ha garantito che il loro orientamento kemalista restasse invariato nonostante le purghe di agosto. In ogni caso, la vicenda segna un importante punto a favore del ruolo di guardiani della Costituzione delle Forze Armate egiziane. Con ogni probabilità, ciò garantirà loro il favore dei liberali alle prossime elezioni.
Durante la crisi del 2011, vari Paesi della Comunità internazionale si erano attestati su posizioni attendiste, laddove la caduta del regime che per oltre trent’anni aveva tenuto a freno le istanze radicali islamiste, infatti, avrebbe generato enormi ripercussioni per la stabilità dell’area. L’Egitto di Mubarak è stato, dagli accordi di Camp David in poi, il più valido interlocutore di Israele, soprattutto per la comune avversione alla Fratellanza Musulmana ed al suo braccio palestinese, Hamas.
Nell’attuale cambio di regime, tutte le parti in causa, tra cui i vari Paesi interessati ai possibili sviluppi della situazione egiziana, sembrano essersi rese conto che una definitiva stabilizzazione del sistema è al momento irraggiungibile. Pertanto, volenti o nolenti, la timocrazia sorretta dai militari sembra essere al momento l’unica alternativa possibile.
Tuttavia, l’instabilità di tale forma di Governo, considerata come una fase di passaggio, non necessariamente unidirezionale, tra l’oligarchia e la democrazia, fa sì che essa, come ricorda Platone, partecipi agli stessi difetti dell’oligarchia: i governanti non saranno necessariamente i più saggi, ma i più coraggiosi, che dovranno reiterare il loro dominio a più riprese, senza che il sistema possa trovare dentro di sé gli anticorpi contro le varie instabilità interne.
La nuova fase che si apre per l’Egitto, dunque, è quella di un equilibrio fragile e costantemente da correggere. La crisi economica, la recrudescenza dell’islamismo radicale, l’instabilità geostrategica dell’area resteranno temi che ne influenzeranno lo sviluppo ancora per molto.
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