di Alessandro Campi

Ci sono diversi modi di leggere il cosiddetto “caso Shalabayeva”, che da giorni sta scuotendo la politica italiana. Il più immediato e corrente è quello polemico-strumentale: la vicenda delle due donne (mamma e figlioletta) espulse dall’Italia su pressione del governo kazako, in modo formalmente ineccepibile ma senza tenere in nessun conto che si trattava dei famigliari di un noto dissidente, Mukhtar Ablyazov, è palesemente divenuto il pretesto per uno scontro tra chi vuole mandare a casa il governo Letta e chi invece intende continuare a sostenerlo.

Dietro molte delle prese di posizione di questi giorni, spesso sul filo di una facile indignazione morale, dietro la richiesta di dimissioni del ministro Alfano avanzata dalle opposizioni ma non del tutto sgradita, a quanto pare, a pezzi della maggioranza parlamentare, dietro i pressanti inviti a fare chiarezza sull’accaduto per evitare all’Italia negative ripercussioni a livello internazionale, si legge facilmente un nuovo capitolo dello psicodramma che coinvolge l’esecutivo sin dalla sua nascita e che ne ha sin qui minato la capacità operativa. Un governo, secondo molti, nato da un accordo politico-parlamentare talmente innaturale ed eccentrico da rendere il suo destino segnato. Si tratta solo di capire quale episodio o evento, da qui alle prossime settimane, ne decreterà l’inevitabile caduta.

In effetti, quanto accaduto a partire dalla fine dello scorso maggio – il blitz di polizia contro la Shalabayeva ordinato non si sa bene da chi, l’imbarazzo con cui si è reagito a livello politico-istituzionale alle prime notizie sull’episodio apparse sulla stampa, lo scaricabarile che ne è seguito tra Farnesina e Viminale circa la responsabilità politica dell’accaduto, l’inutile revoca del decreto di espulsione decisa dal governo per salvarsi da una brutta figura agli occhi del mondo – sembrerebbe dimostrare quanto questo governo, al di là degli ambiziosi traguardi che si è dato (addirittura la modifica della Carta costituzionale), sia in realtà debole e disunito al suo interno, privo di un disegno strategico, costretto a continui rinvii e a mediazioni estenuanti quando si tratta di decidere su questioni di una qualche importanza, quotidianamente impegnato ad affrontare le continue tensioni prodotte da coloro stessi che lo compongono e sostengono. Non sarebbe meglio mandarlo a casa? Ciò che in effetti potrebbe verificarsi nello spazio di pochi minuti – come ha avvertito il Pdl – se dovesse passare in Parlamento la mozione di sfiducia individuale presentata contro Alfano.

Ma forse la vicenda che ha coinvolto Alma Shalabayeva si presta anche a riflessioni meno contingenti e occasionali, se vogliamo più strutturali, ma proprio per questo più amare e preoccupanti. Tanto per cominciare, è chiaro da quel che è accaduto che l’Italia non ha più una linea di politica estera coerente e univoca che le consenta di godere il rispetto che in teoria le competerebbe agli occhi della comunità internazionale. Se non riusciamo a trattenere le pressioni diplomatiche e i tentativi di ingerenza, non della Cina o dell’Iran, ma del Kazakistan, quali che siano gli affari che intratteniamo con quest’ultimo, vuol dire che la nostra credibilità sulla scena mondiale è più che compromessa. Chi sono i nostri amici e partner e chi i nostri nemici? Siamo un Paese che ha deciso di sacrificare i diritti umani agli affari e alle commesse? In quale direzione, dal punto di vista geopolitico, abbiamo deciso di orientare la nostra azione diplomatica? Perché nei momenti di difficoltà non riusciamo a trovare il sostegno di quell’Europa alla quale ci richiamiamo ad ogni passo? Dal punto di vista delle relazioni internazionali quanto vale tutto il nostro impegno – economico e in vite umane – nelle missioni militari di pace, che continuiamo a sostenere ma senza alcun ritorno effettivo?

L’impressione, acuita dall’episodio che stiamo commentando, è che dal punto di vista della politica estera ci stiamo limitando a gestire le conseguenze della cattiva “diplomazia del sorriso” perseguita per anni da Berlusconi sulla base di relazioni che erano al tempo stesso personali e politico-affaristiche e che spesso sono state condotte fuori dai canali ufficiali della nostra diplomazia, in alcuni casi persino affidate a personaggi di discutibile profilo (si ricorderà, ad esempio, il ruolo di mediatore svolto da Valter Lavitola nelle relazioni con Panama).

C’è poi un altro aspetto che il “caso Shalabayeva” sembra aver fatto emergere: la mancanza di un rapporto funzionale chiaro tra sfera politica e sfera burocratica-amministrativa. La prima sembra aver perso il suo potere di indirizzo. La seconda tende a muoversi ormai in modo sempre più autonomo. L’esperienza dei governi tecnici, che hanno scandito i momenti più difficili degli ultimi venti anni, tutte le volte che si sono creati dei vuoti di potere e la politica ha dato l’impressione di ritirarsi dalle sue funzioni e responsabilità, da questo punto di vista è stata largamente deleteria. È infatti accaduto sempre più spesso che le alte burocrazie statali siano entrate direttamente nella stanza dei bottoni, rendendosi sempre più autonome dalla politica alla quale dovrebbero rispondere e i cui ordini dovrebbero eseguire. Con Monti, ricordiamolo, abbiamo avuto un diplomatico alla guida della Farnesina, un prefetto di prima classe al vertice del Viminale e un ammiraglio a capo della Difesa. Il che è come dire che i ministeri sono diventati politicamente autocefali, che le burocrazie sono state messe nella condizione di fissare esse stesse le linee d’azione politica alle quali attenersi.

Alcuni temono che le dimissioni presentate ieri da Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto del Viminale, siano servite a coprire le responsabilità politiche del ministro competente. E lo stesso potrebbe valere nel caso vengano rimossi dai loro incarichi altri funzionari di polizia. Ma forse è da prendere in considerazione la possibilità che pezzi importanti dell’apparato dello Stato, nel clima di sfilacciamento istituzionale in cui versa l’Italia e visto il discredito che da anni grava sulla politica, abbiano obbedito alla tentazione di autonomizzare i loro comportamenti dalla sfera politico-parlamentare, di ampliare le loro competenze e i loro margini d’azione discrezionale e di rispondere a se stessi – non ad un soggetto rappresentativo della volontà popolare – delle loro scelte. Qualcosa del genere da anni è accaduto con la magistratura. Che accada anche con altri segmenti della macchina pubblica non deve stupire, stante la persistente debolezza e vacuità dei partiti e della politica.

Quello che emerge dal “caso Shalabayeva” (ma lo stesso potrebbe dirsi con riferimento alla vicenda dei due fucilieri della nostra Marina ancora prigionieri in India) è insomma il profilo di uno Stato in via di crescente disarticolazione dal punto di vista istituzionale e tecnico-funzionale, all’interno del quale non esistono più linee di comando definite, che si muove in modo incoerente sulla scena internazionale ed esposto al suo interno a spinte sempre più centrifughe e anarchiche. Ci sono volute una mamma e una bambina per renderci consapevoli del nostro vero dramma.

* Articolo apparso sul quotidiano “Il Mattino” del 17 luglio 2013 con il titolo Politica eapparati sempre più divisi.

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)