di Emanuele Schibotto*
“Mi auguro che il suo Paese adoperi tecnologia giapponese”. Queste le parole che il Ministro dell’Industria, Economia e Commercio giapponese Tomishitsu Motegi ha rivolto al Presidente di Myanmar Thein Sein durante una recente visita ufficiale a Myanmar.
Uno dei pilastri della transizione democratica dell’ex colonia britannica (nonché giapponese, dal 1942 al 1945) consiste nel favorire lo sviluppo economico tramite l’attrazione di investimenti esteri, ma ciò incontra palesi difficoltà nella scarsissima rete infrastrutturale funzionante nel Paese – in particolare sono critici i frequenti blackout elettrici. I governanti birmani decidono quindi di rivolgersi al Giappone per reperire le risorse finanziarie necessarie a colmare il deficit infrastrutturale (ricordiamo che il Myanmar è il secondo Stato più povero dell’Asia). Nel 2012 i due Stati siglano un accordo quadro che prevede la cancellazione dei 3,7 miliardi di dollari di debiti contratti dallo Stato birmano, 18 miliardi di dollari di aiuti pubblici e privati garantiti da Tokyo e la costruzione di una zona economica speciale nell’area portuale di Thilawa, in prossimità dell’ex capitale Yangoon. Ora, perché questo fondamentale accordo economico, che pone sul Paese creditore un’ipoteca significativa sullo sviluppo economico birmano, non vede la firma della Cina, il Paese che negli ultimi due decenni ha mantenuto il più alto livello di cooperazione politico-economica con la junta birmana, oppure degli USA, principali sostenitori della transizione democratica e dell’apertura a Occidente? Per quattro ragioni.
Anzitutto, il Giappone è percepito come la principale potenza industriale di riferimento. La terza economia del mondo rimane tutt’oggi un punto di emulazione da parte delle nuove economie asiatiche, e Myanmar non fa eccezione. Nel comunicato stampa congiunto intitolato rilasciato a seguito della visita ufficiale del Premier nipponico Shinzo Abe in Myanmar lo scorso maggio e considerabile il pilastro del rilancio delle relazioni bilaterali, si fa esplicitamente menzione all”importanza della cooperazione tecnologica giapponese” per lo sviluppo economico del Paese.
In secondo luogo, durante gli anni della dittatura Tokyo ha mantenuto buone relazioni politico-economiche, soprattutto tramite i sostanziosi aiuti allo sviluppo – sia bilaterali che nel quadro della Japan-Mekong cooperation initiative. Questo, unito all’approccio economico-commerciale del “business as usual”, concede a Tokyo la fiducia della classe dirigente.
In terzo luogo, la presenza di multinazionali giapponesi nella regione e la loro piena integrazione nella supply chain asiatica rende Myanmar particolarmente interessante per gli investitori giapponesi. Dalla Thailandia al Bangladesh al Vietnam, corporate Japan ha allestito una vera e propria supply chain regionale: basti pensare che le multinazionali giapponesi spediscono circa l’80% delle esportazioni dalle loro controllate regionali verso altri Paesi asiatici. È notizia recentissima l’intenzione di acquisto del 49% della compagnia aerea birmana Asian Wings Airways da parte del vettore giapponese ANA, segnale di aspettative positive sullo sviluppo del comparto turistico birmano.
Infine, il Governo di transizione ha scelto Tokyo come contrappeso economico alla straripante influenza cinese nel Paese (con oltre 14 miliardi di dollari già investiti, Pechino è il primo investitore nel Paese). I piani del Generale Thein Sein escludono una situazione di Stato-vassallo cinese e non vedono la Cina continentale come partner industriale affidabile in grado di far intraprendere al Paese uno sviluppo industriale di lungo periodo. Il contrappeso militare invece è stato individuato negli Stati Uniti, i quali beninteso si servono del loro principale alleato asiatico, Tokyo, per togliere Myanmar dalla sfera di influenza cinese. L’India (altro alleato statunitense), per il momento, è sostanzialmente fuori dai giochi.
All’orizzonte si apre una prospettiva di partnership strategica Giappone-Myanmar, tanto preziosa per l’apertura al commercio internazionale birmano quanto interessante – in prospettiva – per la macchina industriale giapponese, garantendole un mercato di sbocco privilegiato per i prossimi decenni.
* Dottorando di ricerca in geopolitica economica presso l’Università Marconi e Direttore Editoriale del Centro Studi di Geopolitica e Relazioni Internazionali Equilibri.net. Co-autore del libro “Italia, potenza globale? Il ruolo internazionale dell’Italia oggi” (Fuoco Edizioni, 2012).
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