Alia K. Nardini

Parafrasando Michael Walzer, senza dubbio uno tra i maggiori dei filosofi politici viventi: per quanto tendiamo cinicamente ad archiviare come inutile la possibilità di regolamentare la guerra, è la nostra indignazione di fronte alle atrocità che ci fa ribadire il contrario. Mai come nel caso della Siria è importante non cedere al realismo, che ci impone di relegare le nostre considerazioni morali ad ambiti ben lontani dalla politica. Ciò nonostante, è altrettanto importante non cedere alla tentazione di estendere in modo vago e impreciso i confini della responsabilità di proteggere, e di guardare all’intervento umanitario come all’unica opzione morale disponibile.

Il popolo siriano soffre indicibilmente. Immagini raccapriccianti invadono i nostri media. Dopo le ultime notizie relative all’uso di armi chimiche (da parte del governo di Assad? Dei ribelli? Di entrambe, probabilmente?), sembra impossibile rimanere passivi, a guardare. Anche coloro che hanno sempre rifiutato l’ipotesi di un eventuale azione militare, considerandola sterile – o nei peggiori casi, ipocrita – sembrano disposti a riconsiderare le proprie convinzioni. Ma la comunità internazionale ancora non riesce a trovare una via unitaria da percorrere.

Tutto sembra indicare che vi sia una causa giusta per intervenire in Siria: sono state utilizzate armi chimiche e torture contro civili. Il popolo è oppresso, i diritti umani vengono sistematicamente ignorati. Perché questo non è abbastanza per agire di concerto e fermare questa tragedia? Quali sono le perplessità, le difficoltà che ancora si frappongono ad un legittimo intervento militare in Siria (chiamiamolo, per i più sensibili, intervento umanitario)?

Prima di tutto, una giusta causa non è sufficiente per imbracciare le armi, altrimenti si combatterebbe con molta più facilità. L’idea di tracciare un confine tra ciò che è giusto e ingiusto è proprio quella di ridurre drasticamente, non di aumentare, il numero delle guerre. Un’azione militare, per essere lecita, deve anche perseguire uno scopo legittimo. Ma quale può essere il fine di un’eventuale intervento in Siria? Gli obiettivi sono eccessivamente, sorprendentemente indefiniti. Tutelare i civili? Lanciare missili difficilmente servirà allo scopo. Rimuovere Assad? Fare in modo che in Siria si svolgano elezioni libere? Portare i ribelli al potere? Portare la democrazia? (le ultime due ipotesi, incidentalmente, sono nel breve periodo inconciliabili). In questo senso, ancora non si sa esattamente cosa si vuole ottenere. E finché non sarà chiaro il fine, l’intervento non potrà essere legittimo.

Secondo, manca il consenso da parte dell’autorità internazionale. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che dovrebbe in queste circostanze assurgere ad arbitro supra partes e mediatore per una pacifica risoluzione delle controversie, è paralizzato dai tentennamenti di Russia e Cina riguardo a qualsiasi inasprimento delle misure contro il regime di Damasco (tentennamenti che riflettono interessi economici particolari e considerazioni geopolitiche, certo – ma questo vale anche per gli occidentali). La Lega Araba si è espressa in modo negativo riguardo alla possibilità di un intervento, così come India, Pakistan, Iran e molti altri. Gli Stati Uniti, memori delle critiche all’unilateralismo di George W. Bush, attendono l’approvazione del Congresso dopo aver ottenuto l’autorizzazione della Commissione Esteri del Senato e sembrano aver posticipato indefinitamente la possibilità di una coalizione dei volenterosi che agisca indipendentemente. Altri paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Italia) hanno scelto la logica – fallace, ma meno rischiosa – secondo la quale nulla si può fare senza mandato ONU. Come se non intervenire di fronte ad un popolo soffre diventasse improvvisamente sbagliato solo nel momento in cui il Consiglio di Sicurezza deliberasse unanimemente a riguardo.

Perciò, per ricorrere alla calzante terminologia della just war theory, in Siria vi potrà pur essere una motivazione legittima per agire, ma manca la giusta intenzionalità, nonché l’avvallo di un’autorità competente che decida il corso d’azione da seguire. Molto si potrebbe anche obiettare riguardo all’uso della forza in quanto ultima opzione disponibile. Nonostante il fallimento del piano di pace di Kofi Annan, c’è ancora un esercito che combatte Assad. Forse ci sono altre vie da tentare per influenzare indirettamente le sorti di questa guerra e tutelare i civili.

Si potrebbero avanzare perplessità anche riguardo alla proporzionalità dell’azione (la convinzione secondo cui è legittimo usare solo la forza necessaria per raggiungere il proprio scopo). Un’azione militare a tempo, che neghi categoricamente l’impiego di truppe di terra – come vorrebbero gli Stati Uniti, e non solo – difficilmente rappresenta il modo più efficace per porre fine rapidamente e definitivamente al conflitto in Siria. Sembra dunque che la just war theory decreti l’impossibilità di dichiarare “giusto”, e dunque “morale”, un’eventuale intervento militare in Siria.

Un’ultima serie di considerazioni, dalla prospettiva di questa dottrina. Non voler intervenire in Siria (almeno per il momento) non significa negare il dramma e le sofferenze di un popolo. Non significa affermare che i civili vadano lasciati al loro destino. Ci sono altre forme non violente, non militari, di “intervento umanitario” da fornire – sulle quali, per inciso, ci si sarebbe potuti impegnare maggiormente già da tempo. Infine, è bene ricordare che in Siria non si assiste al genocidio di un popolo inerme, perpetrato da un dittatore saldamente al potere. Si sta combattendo una guerra civile, su due fronti contrapposti, dove solo il popolo siriano potrà essere artefice del proprio destino. Ciò accadrà, inevitabilmente, con spargimenti di sangue. E per questo sangue versato, è giusto che il regime paghi: ma lo dovrà fare per mano del proprio popolo, secondo meccanismi sviluppati internamente, non attraverso tempi, attori e criteri imposti dall’esterno.

 

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