di Danilo Breschi
In apertura allo scritto originario sulla “tirannia dei valori”, ossia l’edizione limitata del 1960, Schmitt scrive che “prima, quando la dignità non era ancora un valore ma qualcosa di essenzialmente diverso, il fine non poteva giustificare il mezzo. Anzi la massima secondo cui il fine giustifica i mezzi era considerata riprovevole”. Se quel “prima” segna un passato che la rivoluzione industriale e borghese ha spazzato via, è certo che nessun freno è giunto dal “dopo” segnato dall’epoca nazista, anche laddove venisse letto come “rivoluzione conservatrice”, secondo un’illusione di molta intelligencija tedesca del tempo, Schmitt compreso. Semmai, la tragica avventura hitleriana ha prodotto una formidabile accelerazione alla logica “tirannica” della valorizzazione del mondo. D’altro canto, quella ricerca schmittiana di una nuova, perché forte e “totale”, in fondo organicistica, autonomia della politica non implicava forse un’accentuazione fatale della logica spietata della massima machiavellica?
L’azzeramento dei valori che rende possibile la decisione “sovrana”, ovvero “autonoma”, non elimina (e non eliminò) affatto quella logica annientatrice, al fondo nichilistica, che Schmitt addebitava interamente al liberalismo e al costituzionalismo weimariano. Ad onor del vero, bisogna riconoscere che Schmitt, nell’introduzione del 1967 che riprende e amplia l’intervento del 1959, ammette che la logica valoriale culmina con l’ideologia nazista. Scrive infatti: “nel sistema di valori e nel vocabolario della concezione razzista del mondo il valore e la vita occupano il posto più alto e sono intimamente connessi”. E, nella stessa pagina, cita frasi di Hitler e di Alfred Rosenberg inneggianti al popolo tedesco quale “valore supremo”. Detto ciò, resta comunque il fatto che la dura critica rivolta all’interpretazione della Legge Fondamentale di Bonn quale ordinamento di valori conferma in pieno l’antiliberalismo e l’anticostituzionalismo schmittiani.
C’è qualcosa di nuovo anzi di antico nell’attacco schmittiano al tentativo dei costituzionalisti della Repubblica Federale Tedesca di ricostruire un’architettura istituzionale devastata da ripetute crisi, economiche e politiche, e dall’assalto frontale portato dal nazismo. Quel tanto di nuovo sta nella maggiore attenzione prestata ad un altro compagno di sventura nella Germania del secondo dopoguerra, il filosofo Martin Heidegger. Questi è abbondantemente citato ed elogiato nel saggio schmittiano. La critica alla logica immanente al “pensare per valori” viene tratta di peso dalle pagine heideggeriane dedicate a metà anni Trenta alla sentenza nietzscheana circa la “morte di Dio” e l’avvento dell’età del nichilismo compiuto. Ma il testo heideggeriano più esplicito sul tema, e ancor più popolare negli anni Cinquanta e Sessanta, è la “Lettera sull’“umanismo””, scritta nel dicembre 1946 e pubblicata più volte tra il 1947 e il 1967. Compaiono in questo testo alcune espressioni che, riprese tali e quali, contrassegnano l’origine e l’intenzione finale della critica schmittiana.
Schmitt così esordisce nel 1960: “le cose hanno un valore, le persone una dignità”; un tempo, cioè prima della secolarizzazione indotta dal capitalismo liberal-borghese, “si riteneva indegno ridurre la dignità a valore. Oggi invece anche la dignità si trasforma in valore”. Heidegger, in un passo della sua “Lettera”, affermava perentorio: “si tratta piuttosto di capire finalmente che proprio quando si caratterizza qualcosa come “valore”, ciò che è così valutato viene privato della sua dignità”.
Dietro la posizione di Heidegger e di Schmitt si rivela tutto il lascito dell’opera demistificatrice di Nietzsche, iniziata quanto meno nel 1878 con “Umano, troppo umano” e condotta alle sue estreme conseguenze nei frammenti redatti sul finire degli anni Ottanta, prima che lo cogliesse la malattia. Su tutti è da menzionare il cosiddetto “frammento di Lenzerheide”, risalente al 18 giugno 1887, in cui si può leggere la seguente, devastante affermazione: “Nella vita non c’è niente che abbia valore al di fuori del grado di potenza – dato appunto che la vita altro non è che volontà di potenza”.
Da qui prende le mosse quel decostruzionismo crescente che pervaderà la riflessione filosofica tedesca del Novecento, irradiandosi nel resto d’Europa e invadendo anche il campo della teoria del diritto, inducendo oggi a considerare come dato irrefutabile e difficilmente aggirabile l’affermazione di un “nichilismo giuridico”, per dirla con il giurista Natalino Irti. In questo aspetto consiste la “novità antica”, per così dire, della critica schmittiana al neocostituzionalismo di Bonn, alla teoria, originatasi allora e maturata nei decenni a noi più vicini, secondo cui i “valori fondamentali” della carta costituzionale (denominati anche “norme programmatiche” o “principi generali”) possono essere applicati non solo nelle controversie che oppongono un cittadino ad un potere pubblico, ma anche nelle controversie tra privati che i giudici si trovano a giudicare.
L’origine “antica” di questa critica schmittiana risiede, a nostro avviso, in quell’attitudine spirituale che animava il giurista tedesco sin dalle prime opere sistematiche maturate a cavallo tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio degli anni Venti. Risultano in questo senso preziose le annotazioni con cui Giano Accame accompagnava la prima edizione italiana in volume, per i tipi dell’editore Antonio Pellicani, della “Tirannia dei valori”. Scriveva Accame nell’ormai lontano 1986: “Quando Schmitt si accanisce a dissacrare, sotto c’è qualcosa che non sempre i suoi esegeti comprendono: l’amarezza ed il fiele del patriota tedesco che ha visto due volte sconfitto e distrutto il paese”.
La “novità” di questo sentimento “antico” consiste invece nel fatto che, come osserva sempre Accame, alla critica corrosiva il giurista tedesco nei tardi anni Sessanta non sa più quale soluzione o, quanto meno, quale proposta costruttiva avanzare a chi lo legge. Egli “si limita a porre il problema in termini di disagio, disseminando motivi di irritazione contro la folle esosità del mercato”. Nasce insomma il sospetto, alimentato da Accame sulla scorta di un giudizio formulato da Francesco Mercadante nei primi anni Settanta, che Schmitt sia essenzialmente un agitatore politico e dunque tenda a presentare “come dato freddamente scientifico il paludamento di risentimenti e avversioni” tanto ideologiche quanto lo sono, nel suo giudizio, le posizioni neocostituzionaliste così violentemente attaccate. Coerentemente alla sua concezione della dimensione politica dell’agire umano, è solo questione di posizionamento rispetto al “nemico”. Almeno dai tempi del “Concetto di “politico””, testo le cui prime elaborazioni risalgono al 1927, Schmitt si muove entro un apparato categoriale che ha fatto come proprio assunto incontrovertibile l’assenza di fondamento.
A differenza dell’antifondazionismo proprio di molta filosofia, anche politico-giuridica, postmoderna, il nichilismo schmittiano è un’assunzione di principio “suo malgrado”, si accompagna cioè al sentimento di nostalgia per l’unità e l’intero perduti. Il desiderio di una restaurazione in termini di nuove-antiche gerarchie non pare sopito nemmeno nello Schmitt del secondo dopoguerra; certamente non lo è nel periodo tra le due guerre e sotto questo profilo risulta facilmente comprensibile l’avvicinamento e quindi il fattivo sostegno, sia pur provvisorio, al regime nazionalsocialista.
(2. continua)
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