di Apostolos Apostolou*
“Io”, pronome di prima persona, usato cioè dalla persona (o cosa personificata) che parla quando si riferisce a sé stessa. Il concetto di persona singolare, individuale, spirituale, come noi lo conosciamo dalla filosofia e dalla teologia cristiana, non trova spazio nel pensiero greco classico e nella meditazione di Platone, di Aristotele o di Plotino, a cui esse attingono.
Incontriamo l’Io come espressione nel poema di Esiodo quando dirà “Io Persiano dirò la verità, non c’è una eris (cioè conflitto, lite, contesa) ma due”. E Melissos di Samo dirà “Se ci fossero molte cose dovrebbero essere così come io dico che è l’uno”(οίον περ εγώ φημί το εν είναι). Nell’opera del poeta Omero troviamo il verbo attivo “nomizo” che significa “sono dell’opinione che”. Anche Parmenide scrive: “È necessario il dire e il pensare che essere sia: infatti, l’essere è il nulla, non è. Io queste cose ti esorto a considerare.” (Εγώ μυθησαίμην ετήτημα, Frammento 6 ). Mentre nell’opera di Empedocle troviamo 20 volte la prima persona singolare.
Cosi l’“Io” diventa l’insegnamento del saggio. Perché il saggio è capace di valutare in ogni momento la portata morale della proprie scelte, per fare il bene e fuggire il male. Il saggio parla in nome del popolo. Usa la prima persona singolare, perché l’Io non rinvia ad una sorta di nucleo sostanziale ma indica un aggregato di fatti osservabili. Abbiamo l’“Io” soltanto nella filosofia presocratica e nella poesia lirica. Dal passaggio dalla “polis” tirannide alla “polis” democratica, l’“Io” si dissolve e abbiamo il “Noi” della comunità. Con la a democrazia l’“Io” è stato sostituito dal Noi. La democrazia è il regime esplicitamente fondato sulla “doxa”, cioè sull“opinione”, sul confronto tra le opinioni (molti parlano di auto-limitazione), sulla formazione dall’opinione comune. Così abbiamo la ricchezza di un “Noi” e proprio la tenacia di un “Noi” antropologico, pregno di relazioni, ma non scevro da contraddizioni intrinseche. Il “Noi” diventa l’ossigeno della vita pubblica. Perciò nella filosofia platonica, aristotelica, ecc, non c’è l’“Io”.
L’“io” è una delle espressioni emblematiche del pensiero occidentale contemporaneo, divenuta oggetto esplicito di riflessione nella filosofia e nella psicologia dal secolo scorso. È alla base della sua formulazione mentale e linguistica, mantiene, con un’autocoscienza, un legame più diretto con l’interiorità. Però esauriamo l’“Io” con la centralità della fenomenologia e dell’esistenzialismo.
Cioè abbiamo l’“Io” trascendentale, secondo l’architettonica kantiana, come riduzione alla intersoggettività pura, in chiave etico-antropologico-sociologica, che vede l’uomo nello schema diagnostico-terapeutico.
Ma anche con la centralità della politica “giacobinistica”, come capacità di valutare le scelte, che conduca ad una “manicheistica” dicotomia tra confessionalismo ed eterodossia. Questa politica pone una creazione di un altro “livello” dell’essere e pone la teoria costruttivista del desiderio: la specie umana, determinata dal bisogno, si vede privata o «spogliata» del desiderio inconscio ed è resa folle dall’istituzione.
La centralità dell’“Io” nella fenomenologia ha una funzione esclusivamente metodologico-riflessiva come possibilità dell’autoafferramento originario. Il principio fenomenologico “Io sono soggetto per tutto ciò che è soggetto per tutti che sono pure soggetti per tutto ciò che è, me compreso” (filosofia husserliana) pone la questione della “motivazione” dell’esperienza dell’altro, tralasciando ogni fondo ontologico-sostanzialistico. Così il problema della comunicazione intersoggettiva trascendentale si esamina sulla base che l’altro è una modificazione costitutiva-trascendentale del mio io.
Le filosofie dell’esistenza valutano l’“Io” come l’espressione più radicale dell’“essere nel mondo” proprio dell’uomo. Nell’Ottocento S. Kierkegaard afferma che l’io è “un rapporto che si rapporta a se stesso” (“La malattia mortale”, cap. I) che quindi non può uscire in alcun modo dalla sfera della soggettività empirica. Anche M. Heidegger sostiene che “il dire” “Io” si riferisce all’ente che io sono in quanto io – sono – in –un mondo (“Essere e tempo”, par.64).
L’“Io” come sostanza, come funzione, o come forza dell’immaginazione secondo filosofia cartesiana passa dalla filosofia di Kant e diventa un principio gnoseologico che unifica un materiale già dato. E poi con la filosofia fichtiana l’“Io” è un principio ontologico, che pone gli oggetti nell’atto in cui pone se stesso. Mentre l’“Io” freudiano controlla la percezione, il comportamento, il pensiero logico e così via.
Nella politica “giacobinistica”, l’altro diventa proiezione del desiderio o un sostituto dell’insicurezza e anche una questione di verifica. Con il relativismo aprioristico che esprime la politica “giacobinistica”, il “Noi” della comunità diventa causa sociale, una configurazione, (una istituzione) che sottrae l’arbitrio individuale. Così la configurazione, o l’istituzione sempre nel contesto della religione naturale è l’oggettivazione codificata dei principi regolativi del comportamento, che è considerata legge di valore assoluto data dallo Stato stesso (il Dio è stato sostituito dallo Stato) e garantisce all’individuo o cittadino la sicura presunzione della sua disciplinata obbedienza al valore divino dello Stato. Quanto più particolare è la casistica del codice dell’istituzione, tanto più precisamente misurabile è la certezza della virtù individuale, dei suoi meriti, dell’acquisizione dell’eterna ricompensa.
Così abbiamo da un lato, il progetto dell’“Io”, cioè la lotta per l’emancipazione intellettuale, spirituale e concreta nella realtà sociale dell’essere umano; e, dall’altro lato, il progetto del “Noi”, di un’espansione illimitata di uno pseudo-controllo pseudo-razionale che da molto tempo ha smesso di riguardare soltanto le forze produttive e l’economia per diventare un progetto globale. Un modello che combina l’inventività tecnica, la partecipazione, “Noi”, e il sacrificio umano dell’“Io”.
*Docente di Filosofia
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