di Danilo Breschi

Oggi voglio parlare di un libro uscito in Italia nel 2009, ma che merita ancora oggi una attenta riflessione da parte degli studiosi di storia e degli appassionati di politica, in particolare di tutto quanto ha a che fare con le origini e l’evoluzione del concetto di “rivoluzione”. Si tratta del saggio “Napoleone e Washington. Bonaparte e il modello americano dal Consolato all’Impero”. Autore: Bronisław Baczko, uno tra i massimi studiosi dell’Illuminismo e dell’intera cultura francofona del Settecento. Questo volume è una felice intuizione dell’editore Donzelli che pensò bene di tradurre e pubblicare a sé stante, e ad un solo anno di distanza dall’edizione francese, un capitolo dell’importante ed imponente studio (quasi ottocento pagine) che Baczko ha dedicato alle “Politiques de la Révolution française” (Gallimard 2008).

Si tratta di un capitolo che ha la dignità di un libro, e quindi bene ha fatto l’editore a proporne la traduzione, anche se va detto che il titolo scelto in italiano è un po’ fuorviante: l’originale francese è infatti “Un Washington manqué: Napoléon Bonaparte”. Ciò significa che Baczko non ha affatto inteso proporre una analisi comparata di due sistemi politici, uno che era di recentissima costruzione a fine Settecento, e cioè la repubblica presidenziale americana, e l’altro che era invece in fase di gestazione, all’indomani del 18 brumaio dell’anno VIII (9 novembre 1799) e del colpo di Stato realizzato dai fratelli Bonaparte, Napoleone e Luciano, con il decisivo contributo di Sieyès.

Oggetto di questo capitolo-libro è piuttosto l’evoluzione della lunga parentesi rivoluzionaria francese che, dieci anni dopo il 1789, mostrava di essere ben lungi dal dirsi risolta in un sistema politico-istituzionale saldo tanto nel suo funzionamento quanto nella sua legittimazione. Il regime direttoriale si era rivelato incapace di porre fine a quella guerra civile che il 9 Termidoro aveva illuso di poter e saper chiudere definitivamente. Un’eredità dei primi anni della Rivoluzione, una su tutte, era stata l’identificazione della sovranità con la nazione, e una volta che l’accelerazione e il dérapage repubblicano-giacobino degli eventi aveva escluso il re dalla possibilità di incarnarla, anche solo simbolicamente e parzialmente, l’equazione di Sieyès risultò compiuta: nazione è il Terzo Stato, ossia la quasi totalità dei francesi. Ma la nazione è un concetto ambivalente e infido, che facilmente in un contesto di guerre esterne ed elevata conflittualità interna poté scivolare nella mistica, ma anche mistificazione, della volontà generale che solo una personalità superiore può infine candidarsi a sapere interpretare correttamente in ogni situazione. Proprio sulla figura del salvatore della patria e della rivoluzione Napoleone andrà a costruire la sua ascesa fino alla dittatura personale, come Primo Console e quindi Imperatore.

Di questa escalation ci narra Baczko e lo fa ricorrendo ai molti commenti coevi di osservatori di primo rango, ma anche di più basso profilo, scrittori minori che però ci rendono oggi il clima di quell’epoca di transizione. Una transizione dalla rivoluzione costituzionale alla monarchia post-rivoluzionaria e senza dinastia che Napoleone incarnerà, mescolando nella sua azione il nuovo culto della nazione e quella vera e propria “ossessione unanimistica” che ha sempre dominato gran parte della cultura rivoluzionaria. Il generale corso offrirà un modello politico-istituzionale probabilmente inedito, che davvero ha poco a che fare con Washington, sorta di “Cincinnato moderno”, configurando piuttosto una versione del tutto peculiare del mito del “re patriota”, come hanno a loro tempo evidenziato, fra gli altri, Paolo Viola e Luca Scuccimarra, con preciso riferimento all’anno VIII. Scuccimarra, in particolare, ha descritto la dimensione politico-costituzionale del processo che conduce al regime consolare, quindi imperiale, come una “progressiva delegittimazione di un sistema parlamentare a forte dominanza partitica” e la successiva “nascita di una forma plebiscitaria di investimento personale, svincolata da qualsiasi verifica elettorale” (L. Scuccimarra, “La sciabola di Sieyès”, Bologna, il Mulino, 2002, p. 9).

Baczko ci restituisce esattamente questo percorso attraverso pamphlets e manifesti che, per lo più, intendono fare il panegirico di colui che già nei primi giorni dell’anno 1800 si profila come il protagonista indiscusso della politica francese, colui dal quale dipendono le future sorti della nazione. Una situazione che anche commentatori come Madame de Staël e Benjamin Constant, oppositori del coup d’état dell’anno VIII, non possono che descrivere come paradossale, dal momento che la stabilità e la pace interna non paiono possibili né con Napoleone ma nemmeno senza Napoleone. O per meglio dire: cosa sarebbe stato della Francia e della rivoluzione, soprattutto del governo rappresentativo e dei diritti di libertà dei cittadini, una volta scomparso il generale?

Una domanda, questa, che verrà rinviata di quasi quindici anni, e che all’indomani del 18 brumaio non fu così diffusa, facendo aggio sulla libertà e la rappresentanza elettiva il mito della nazione “una e indivisibile” e quello della sovranità popolare, elementi ideologici con i quali Bonaparte poté imbastire la prima forma moderna di democrazia plebiscitaria, illiberale e carismatica. In questo senso Washington fu un modello volutamente “mancato” da Napoleone, che di esempi da seguire non sentiva affatto il bisogno, preferendo piuttosto muoversi secondo le circostanze e dunque costruire il proprio potere secondo le possibilità di volta in volta dischiuse dalla combinazione degli eventi.

Forse, all’inizio, il generale corso accarezzò l’idea di incarnare quelle virtù repubblicane che il mito dell’appena defunto primo presidente americano già diffondeva anche in Europa. Baczko non lo esclude a priori, ma è certo che della stessa rivoluzione il Bonaparte fu indubbiamente figlio e in quanto tale non poté arrestarsi di fronte alla possibilità di espandere la propria gloria immortale, declinazione in termini autocratici e nazionalistici di quel moto permanente che il 1789 aveva innescato oltre ogni più radicale aspettativa.

D’altro canto, come lo stesso Baczko ha scritto altrove, “la Rivoluzione francese presenta la significativa particolarità di installare uno spazio politico moderno in un ambiente culturale e mentale tradizionale”. Cesare o Cromwell si addicono più alla comparazione esplicativa dell’avventura napoleonica, come i contemporanei del generale corso subito compresero. Arcaico e moderno si mescolarono nell’esperienza rivoluzionaria francese e Napoleone anche in questo ne fu figlio diretto e legittimo. C’era assai più lo zampino di un nascente Romanticismo che non di un declinante Illuminismo. Da par suo, Hegel seppe coglierlo a pieno e interpretarlo per il nuovo secolo che faceva a cavallo del moderno imperatore il suo trionfale e tragico ingresso.

 

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