di Danilo Breschi

La Siria è diventata un teatro di guerra molto attrattivo per la Jihad e i terroristi salafiti. Le ragioni di ciò sono molteplici. Innanzitutto, i salafiti non considerano il regime di Bashar al-Assad come musulmano dal momento che aderisce all’Islam Alawi, che è considerato eterodosso perfino all’interno dell’islamismo sciita. È come se una forza non-musulmana stesse occupando il territorio sunnita, e sarebbe perciò del tutto legittimo considerarlo un obiettivo da attaccare e rovesciare. In secondo luogo, esistono profezie da fine dei tempi sulla Siria, e più specificamente sul Bilad al-Sham (o Grande Siria, che include l’attuale stato siriano, il Libano, la Giordania, Israele e Palestina, e persino l’Iraq occidentale). Queste profezie prevedono che un giorno Gesù scenderà sulla terra e comparirà sul minareto bianco della grande moschea di Damasco e combatterà contro il falso messia (“dajjal”), e questo accelererà il Giorno del Giudizio. Una tale profezia, abbinata ai detti del profeta Maometto (“hadith”) circa le bandiere nere issate in Khurasan (storicamente: in parti dell’Iran, Asia Centrale, e cosa più importante per gli jihadisti, l’Afghanistan), ha a che fare con la fine dei tempi, e i combattenti islamisti ne traggono ulteriore conferma di quella Jihad che è iniziata in Afghanistan negli anni Ottanta. Tutte queste credenze nutrono, ben più di quanto non si pensi, molti militanti salafiti convinti di affrettare il Giorno del Giudizio.

Esistono però anche molti militanti Salafiti che intervengono in Siria per ragioni più “altruistiche”, in quanto vedono i loro compagni sunniti massacrati dal regime di Assad e ritengono che né gli Stati arabi né, tanto meno, le nazioni occidentali, stiano facendo tutto il necessario per i sunniti siriani. È probabile, però, che essi continuerebbero nella lotta anche nel caso in cui questo aiuto si facesse più palese e massiccio. Così spiega Aaron Y. Zelin, analista politico del Vicino Oriente presso il Washington Institute. Sempre Zelin ritiene che la ragione più importante della Jihad internazionale in Siria sia la possibilità di fare di questa lotta il trampolino di lancio per uno scontro frontale contro Israele per la conquista di Gerusalemme, il loro obiettivo finale.

Dato interessante da notare dell’analisi di Zelin, riportata in un’intervista rilasciata su “Fair Observer” lo scorso 7 agosto, è che gruppi militanti salafiti come Jabhat al-Nusra hanno saputo combinare la loro capacità di lotta al regime di Assad con l’erogazione di servizi sociali alle comunità di opposizione. In tal modo, essi sono stati capaci di avvicinarsi alla popolazione locale e conquistarne la fiducia. Gli jihadisti hanno insomma imparato dagli errori commessi nello scorso decennio in Iraq. La maggior parte delle massime autorità religiose sunnite, incluso l’egiziano Youssef al-Qaradawi, hanno solennemente affermato che la Jihad in Siria è un obbligo (“wajib”). È perciò assai probabile che un numero ancora maggiore di combattenti stranieri giungano in territorio siriano, come di fatto è già avvenuto a Ramadan concluso. Al contrario, questa concentrazione verso la Siria parrebbe evitare una imminente, analoga chiamata alla Jihad anche in territorio egiziano.

Secondo i dati a disposizione di Zelin, gli stranieri che lottano a fianco dei ribelli anti-Assad sono circa il 5-10% delle forze di opposizione. Alcuni hanno avuto precedenti esperienze in Afghanistan, Iraq, Yemen e aree limitrofe. Per altri, è la loro prima Jihad. L’afflusso ha subito un deciso incremento a partire dall’estate del 2012. La gran parte dei combattenti stranieri appartiene ai due gruppi affiliati ad al-Qaeda: Jabhat al-Nusra e l’ISIS (ovvero, secondo l’acronimo inglese: lo Stato islamico di Iraq e al-Sham). Sempre secondo l’analista del Washington Institute, la maggior parte dei combattenti stranieri viene dal mondo arabo, specificamente Arabia Saudita, Libia, Tunisia, Egitto, Giordania, Libano e Iraq.

Jabhat al-Nusra è il gruppo jihadista più importante e attivo sul fronte del conflitto siriano, ed è appunto ritenuto da molti affiliato ad al-Qaeda. In una intervista a “The Economist”, uscita lo scorso maggio, un suo membro, ex insegnante e poi piastrellista, ha chiarito quali sono le posizioni del gruppo e quali obiettivi persegue. La caduta di Assad e del suo regime è solo la prima tappa. “Noi lottiamo per applicare quel che Allah disse al profeta Maometto, la pace sia con lui. Noi combattiamo affinché le persone non guardino alle altre persone ma solo ad Allah”. Queste le dichiarazioni dell’intervistato sul settimanale inglese, che aggiunge: “Noi non crediamo nella libertà assoluta: essa è circoscritta dalle leggi di Allah. Allah ci ha creato e sa cosa è meglio per noi”. E alla domanda su quale futuro egli veda per la Siria, il giovane combattente islamista risponde: “Noi vogliamo che in futuro sia l’Islam a comandare. Non una nazione con confini ma una “umma”, cioè una comunità di tutti i fedeli musulmani. Tutti i musulmani dovrebbero essere uniti”. Dal punto di vista dell’integralismo islamico, i sunniti che vogliono la democrazia sono “kuffar”, ossia degli infedeli, così come tutti gli sciiti. “Non si tratta di lealtà o meno al regime, ma della loro fede”, come chiarisce l’intervistato dall’“Economist”.

Analisi fornite da agenzie di “global intelligence” hanno confermato anche in queste ultime settimane come molte formazioni dei ribelli siriani siano composte da stranieri giunti dall’Europa. Il quotidiano spagnolo “El Mundo” ha fatto il nome del gruppo Jaish al-Muhajireen wal Ansar, noto in precedenza con il nome di Brigata Muhajireen, come uno tra i maggiori reclutatori di combattenti di provenienza europea. Secondo fonti cecene, il gruppo, composto da circa un migliaio di combattenti, ha condotto assalti nelle province di Aleppo, Laodicea (o Lattakia, in arabo) e Idlib. Dati dello scorso aprile, forniti da Gilles de Kerchove, coordinatore dell’antiterrorismo dell’Unione Europea, hanno stimato almeno 500 cittadini europei tra le file dei ribelli in Siria. La maggior parte provengono dal Regno Unito, dalla Francia e dall’Irlanda. Un più o meno coevo rapporto del Centro di Studi sul radicalismo del King’s College di Londra ha stimato in circa 600 gli europei in azione in Siria tra le fila dei ribelli. Provengono da 14 Paesi, inclusi Austria, Spagna, Svezia e Germania, oltre a quelli sopra menzionati. Peraltro, il Regno Unito si colloca al primo posto quale “fornitore” di combattenti jihadisti. Sarebbero, dunque, qualcosa di più del 5-10% dell’insieme del fronte di opposizione al regime di Assad.

Sono tutti dati alquanto approssimativi, perché le identità dei combattenti sono difficili da accertare e l’identificazione avviene solo dopo la loro morte in combattimento. Inoltre, non pochi dei “volontari” stranieri combatte su suolo siriano per un breve periodo, e poi rientra nel vecchio continente, pronto eventualmente ad impegnarsi su altri fronti nel Vicino Oriente o in Africa. Solitamente, un primo viaggio, quello di “iniziazione”, è stato compiuto da queste vere e proprie cellule terroristiche in Paesi come il Pakistan, l’Afghanistan e lo Yemen dove esistono numerosi e ben organizzati campi di addestramento. Gli stessi territori siriani adesso offrono un ambiente dove l’esercitazione diventa qualcosa di ben più impegnativo e probante di una simulazione, così come è stato a suo tempo – e, in parte, ancora è – per Afghanistan e Iraq. Da segnalare, infine, la presenza anche di donne tra i componenti dei gruppi estremisti e combattenti, anche kamikaze. La scorsa settimana, tra gli assalitori al centro commerciale di Nairobi risultano anche alcune donne. E anche in questo ultimo sanguinoso episodio, secondo la CNN, numerosi terroristi verrebbero dall’Europa, e almeno tre dagli Stati Uniti, per l’esattezza Minnesota e Missouri.

La situazione di alta instabilità politica determinatasi a seguito delle cosiddette “Primavere arabe” favorisce questa frenetica mobilità di “guerrieri di Allah”. Questa massiccia presenza di jihadisti residenti in alcuni paesi europei contribuisce a spiegare la più recente riluttanza di governi come quello inglese, ma anche francese (al di là del formale sostegno del presidente Hollande alla linea di Obama), a rifornire di armi i ribelli siriani, dopo le iniziali azioni diplomatiche che erano state tese a sospendere l’embargo su tale tipo di rifornimenti.

L’Europa resta dunque il “buen retiro” dell’islamismo combattente jihadista, ma potrebbe anche essere il contesto su cui questo potrebbe decidere improvvisamente di agire, anche se al momento il suo scenario di azione terroristica pare essere piuttosto l’Africa orientale, in particolare Kenia e Somalia, e il Pakistan, come dimostrano gli attentati degli ultimi giorni. Il terrorismo islamista non pare dunque, al momento, avere interesse a colpire e, di conseguenza, allarmare un’Europa che potrebbe ancora intervenire militarmente in Siria per indebolire, se non abbattere, il regime di Assad, e fare così indirettamente un favore all’internazionalismo jihadista. È anche con queste forme di ricatto indiretto e condizionamento delle relazioni diplomatiche che si muove la rete di al-Qaeda o di ciò che può averla sostituita, o incrementata. La globalizzazione rosicchia ovunque i confini, e li sbriciola, anche nel terrorismo.

 

Commenti (2)

  • Simone Quattrini
    Simone Quattrini
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    L’utilizzo della religione islamica a fini di potere; una bassa educazione ed istruzione qualitativa e quantitativa ancor maggiore nella componente femminile del mondo arabo; l’islam visto come testa d’ariete per la rivincita del mondo mussulmano “contro” quello occidentale; l’islam come religione in sé, in cui i testi sacri non prevedono distinzioni fra sfera religiosa, pubblica e privata né “tendenzialmente” la convivenza con altri che non siano mussulmani e che sono solo infedeli (da cui discende la mancanza del rispetto delle diversità nelle sue varie forme); la mancanza di una guida unica e suprema all’interno dell’islam stesso (come può essere la chiesa vaticana con il Papa per la religione cattolica); la paura del confronto e della globalizzazione in vaste frange delle masse mussulmane a seguito del famoso crollo del muro di Berlino, che ti fa sentire incapace di adattarsi ed accettare un nuovo mondo per cui l’islam diventa il rifugio, la panacea contro tutti i cambiamenti; un’insoddisfazione personale e da frustrato che ti porta ad avercela con il mondo intero per cui trovi, negli estremisti terroristi che rivendicano nel nome dell’islam i loro crimini, ragioni di rivalsa (un po’ come, a livello di meccanismo psicologico, è sempre successo per coloro che hanno nel tempo formato e partecipato a varie forme di terrorismo) da qui la conversione di diversi “occidentali” alla religione islamica non a caso nei suoi filoni più estremisti; un occidente (specie l’Europa molto meno l’America) incapace o poco capace di reagire criticamente, filosoficamente e unitariamente a tale estremismo per colpa di un diffuso relativismo etico che ti impedisce di comprendere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (basterebbe, per recuperare la bussola, riferirsi a Karl Popper autore della Società aperta, in cui semplicemente si afferma come ciò che non può tollerare la società aperta è l’intollerante, cosa che invece è stata spesso fatta, tollerata in Europa per un malinteso concetto di accoglienza delle diversità, comprese quelle che minano alla base i valori fondanti attraverso i quali certe diversità intolleranti vengono e sono state accolte) (vi è da dare atto che ultimamente anche in Europa -compresa soprattutto la “sinistra politica” che sul punto aveva ad ha fatto un gran disastro, si sta riposizionando rispetto alla deriva che aveva preso- anche se tale riposizionamento risulta timido e spesso silente per semplice paura).
    Vi è un intreccio generale di situazioni storiche, politiche, di interessi, religiose, sociali e psicologiche che rendono la Siria lo specchio della crisi delle masse del mondo arabo in genere da un lato e della perdita della bussola da parte del vecchio mondo occidentale dall’altro. Il problema è che questo specchio, come a me pare che tu giustamente suggerisca caro Danilo, si sta allargando.
    Simone Quattrini

  • Danilo Breschi
    Danilo Breschi
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    Caro Simone,
    cogli perfettamente molti nodi cruciali del fenomeno del “revival islamico” nel mondo arabo (e non). Aggiungerei il ruolo che hanno i governi e gli Stati, o quel che gli somiglia, all’interno di quegli stessi paesi di quello stesso mondo. Oggi hanno un certo ruolo, per lo più di indifferenza o di pura repressione (vedi soluzioni militari all’egiziana o algerina), ma domani, e sarebbe auspicabile il prima possibile, potrebbero averne un altro, ben diverso, più attivo e propositivo. Anche preventivo, per quei governi e Stati che non vogliono che una minoranza itegralista comandi sulla base del consenso di una maggioranza che ha le caratteristiche che tu descrivi, ma risulti comunque vincente secondo i criteri di una democrazia letterale ma non liberale e pluralista.
    Il ruolo di un “welfare” che toglie l’acqua ai pesci talebani e favorisce modernizzazioni, che non necessariamente producono deserti di secolarizzazione totale e di relativismo etico assoluto. La tentazione integralista si perpetuerà, e forse allargherà, se le dittature e i regimi oligarchici vigenti non cominceranno a pensarsi transitori e comunque politicamente tesi a migliorare le condizioni materiali della popolazione nonché le infrastrutture e i servizi delle società da loro rette e controllate.
    Forse all’occidente occorrerebbe pensare ad una sorta di “Piano Marshall” del mondo musulmano… Altro che interventi bellici “umanitari”!!
    Un caro saluto,
    Danilo Breschi

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