di Angelica Stramazzi

Chiunque abbia avuto la fortuna di poter frequentare l’università, si sarà almeno una volta trovato ad affrontare una semplice questione: domandarsi se quel percorso intrapreso lo avrebbe portato, un domani, a realizzare pienamente sogni ed aspettative di vita. Generalmente però, programmare troppo – e in anticipo – non porta buoni frutti; sicché in molti si ritrovano a svolgere mansioni per le quali non hanno studiato (ma debbono dirsi parimenti fortunati perché un’occupazione ce l’hanno).

Ogni anno, puntualmente allo scoccar d’inizio del mese di settembre, assistiamo a dibattiti circa la necessità di riformare la scuola – e l’università – italiana; di selezionare in base al merito (e non sul carrierismo) docenti e professori; di far sì che, anche in un periodo di crisi e recessione come quello che stiamo vivendo, i nostri atenei siano in grado di attrarre più giovani possibili. E così, nell’euforia di un test di ingresso superato, le famiglie (nella gran parte dei casi già indebitate) si accollano ulteriori sacrifici per sostenere le fatiche intellettuali dei propri figli, sperando che un giorno quegli stessi sacrifici vengano ricompensati da un lavoro degnamente retribuito e in grado di contribuire allo sviluppo complessivo della persona. Sappiamo – ahinoi – che così non è, almeno nella maggior parte dei casi, salvo poi considerare quelle (poche) isole felici in cui si verifica (ancora?) l’incontro perfetto tra domanda e offerta: roba da far inorridire anche i più sfiduciati economisti!

Ecco perché deve essere accolto come manna dal cielo – oltre che come prezioso suggerimento indirizzato ai nostri governanti – l’intervento di Roger Abravanel, autore di Meritocrazia, apparso martedì 24 settembre sul Corriere della Sera. Analizzando i mali delle università (senza merito) italiane, gli appelli al diritto allo studio lanciati dal premier Letta e i recenti interventi sulla scuola varati dal Ministero dell’Istruzione, Abravanel ha focalizzato la sua attenzione sui due/tre punti nodali che ciascun ateneo – se davvero desidera diventare culla del sapere e non solo un diplomificio – dovrebbe seguire. Ossia: non conferire borse di studio ai mediocri in base a (false) dichiarazioni dei redditi; non concedere lauree con il massimo dei voti se la “prestazione” non è tale da meritare veramente quel giudizio; creare incentivi che rompano i tabù della “laurea vera”. Perché, se è vero che conta il titolo di studio, è altrettanto assodato che sul campo vale molto, ma molto di più, l’esperienza che uno possiede: la capacità, cioè, di essere dinamici, flessibili, di intercettare i cambiamenti e saperli per tempo interpretare adeguatamente. Tutto questo non si acquisisce in tre o in cinque anni, ma solamente attraverso esperienze concrete di apprendistato e lavoro. Per far questo, le università dovrebbero consolidare (o, in certi casi, intessere del tutto) i rapporti con le aziende, ossia con quelle strutture in cui dovrebbero inserirsi i giovani laureati (o diplomati). E poi: si (ri)qualifichino i diplomi, soprattutto di natura tecnico – scientifica; si valorizzino quei centri in cui si studia la nostra cultura gastronomica ed alimentare. Ben vengano i medici, ma largo anche a coloro che scelgono di studiare e di arrestarsi ad un certo punto del percorso, per poi immergersi in un mercato del lavoro che valuta sì il pezzo di carta, ma soprattutto la competenza e la professionalità.

Insomma, Abravanel ha ragione quando afferma che «il diritto allo studio dei mediocri non garantisce il posto di lavoro»: non lo garantisce per il semplice motivo che ingolfare le università non serve; che le aspirazioni dei genitori ad avere in famiglia un “dottore” a tutti i costi creano più ansie da prestazione, più depressioni, che qualifiche spendibili sul mercato. Si inizi finalmente a valutare il merito, a prescindere dal possesso della laurea o meno: ciò che conta è sì l’avere un titolo, ma altrettanto importante è avere una luce negli occhi perché si ama ciò che si fa.

 

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