di Giuseppe Romeo
Le elezioni tedesche si sono concluse e la Merkel, al di là di ogni commento, ha rivinto. Questo è un dato di fatto e dai dati di fatto si deve partire per condurre un’analisi compiuta. La stampa italiana, buona parte di essa, sempre pronta a giudicare le altrui vicende senza guardarsi intorno e senza chiedersi se dell’opinione espressa dai nostri giornali possa all’estero interessare qualcuno, ha sottolineato non la vittoria e il significato di tale riconferma, ma le criticità di una possibile tenuta di un neoesecutivo guidato dal premier tedesco. Trasformandosi in cittadini tedeschi senza cittadinanza, e non si comprende in base a quale metro di giudizio, buona parte dei nostri analisti quotidiani si è cimentata nel giudicare un popolo che sceglie di riconfermare, attraverso una complessa operazione di accordi, una guida che supera i partiti e lo stesso partito che la esprime. Una leadership che non nasce da un compromesso giocato dopo l’esito elettorale come in Italia ma chiaro, nell’incertezza di un risultato elettorale, nel mettere in conto, prima, le possibili alternative, espressione, questa, di una chiarezza pragmatica di idee che si traducono in uno spiccato senso di una realpolitik che a noi non ci è mai appartenuta. Trascurare gli aspetti sociali e politici di un voto o cercare di comprenderlo, se si vuole, assumendo a metro di misura punti di vista non commisurati alla realtà tedesca significa guardare da italiani ad una società che non è confrontabile per cultura, per identità alla nostra. La Germania non è solo una nazione politica è, questo al pari dell’Italia, un’idea di nazione che affronta la storia cercando nella condivisone di culture e tradizioni un’unità che metta da parte le diversità. Ma mentre la storia dell’Italia è il risultato di un’operazione politica fine a se stessa e voluta da pochi illuminati, la Germania ha retto, pur non esistendo come tale in senso unitario, le sorti finali di una cristianità cattolica con il Sacro Romano Impero di Carlo V per poi assumere la guida, con a capi i principi tedeschi, della Riforma restituendo al popolo la possibilità di riappriopriarsi della propria storia. Si è divisa nella fisicità ma non nella cultura favorendo un disegno di unità che Federico II affermerà senza indugio e Bismarck realizzerà con fermezza aiutato dall’esperienza di un’unità economico-industriale seguita al primo esempio di unione doganale – lo Zollverein del 1834 – a cui si ispireranno gli stessi padri fondatori (tra questi la Germania Ovest del Presidente Adenauer) di ciò che sarà la Ceca prima e la Cee qualche anno dopo. Un modello collaudato di convergenza economico-produttiva che si riproporrà nella capacità di Bonn di adeguare armonizzandolo la capacità industriale dell’Est con quella dell’Ovest esprimendo il successo definitivo di ciò che restava dell’Ostpolitik di Brandt. Il miraggio di poter realizzare un Grande Impero tra gli imperi, la sconfitta della Prima Guerra Mondiale e la condanna alla miseria che porterà all’ascesa del nazismo, non hanno eliminato nonostante le colpe di una tirannia criminale, la consapevolezza di sentirsi un popolo capace di crescere e superare avversità con dignità processando se stesso, la propria storia senza barriere ideologiche e opportunismi di partito, come al contrario avvenuto in Italia. La Germania di oggi, come quella di ieri, dalle crisi di Berlino del 1948-49 e del 1961 è una nazione, un’idea che ha superato più muri, giungendo al superamento dell’ultimo ostacolo nel 1990, è già solo per questo storia di una grande coalizione. E’ il risultato di un’idea di un popolo che ricostruisce con pazienza – aspettando i cambiamenti che la storia prima o poi offre ripagando i sacrifici e annullando le colpe – la propria unità con il risultato che la Germania, riunificandosi, è quella che ha pagato meno il debito territoriale di guerra mentre l’Italia, per non aver saputo aspettare – e non deludere il Tito di turno – ha svenduto politicamente l’Istria e gli altri territori dalmati. La grande coalizione di oggi, comunque vada, è la risposta della Germania ad un momento difficile in cui una nazione non vuole che i propri sforzi nel dotarsi e difendere un modello economico e di finanza pubblica possa implodere e trascinare nella crisi uno Stato che ha più di 80 milioni di abitanti con settori produttivi importanti e non in dismissione. E’ il momento di sintesi tra una socialdemocrazia da sempre esempio politico di una sinistra riformista in Occidente da Willy Brandt in avanti – a cui non è riconducibile nessun’altra esperienza meno che mai quella italiana – con un liberismo conservatore cristiano-democratico che non tradisce il senso popolare di una necessità di affidarsi al mercato, purché sia un mercato regolato e ad una finanza pubblica austera possibilmente senza rinunce. La Germania di oggi non è altro, insomma, che il risultato storico di un rendez-vous politico di ciò che Brandt, Adenauer, Kohl, hanno voluto, e la Merkel vuole, per il loro Paese. E non è importante se una socialdemocrazia possa sostenere programmi di centrodestra e per questo pagare il costo elettorale di alcune scelte future, ma è importante avere almeno delle idee che possano tutelare e conservare gli standard produttivi e sociali di una nazione che si pone a guida dell’Europa perché i conti e le politiche condotte gli attribuiscono una diversità di fondo con la quale non possiamo non confrontarci. Perché la dialettica espone ognuno di noi a critiche e scontri, a manifestare dissensi e aspettative disattese, ma se è in gioco la tenuta di un’idea di nazione e la sua crescita economica, se non addirittura la leadership in un contesto allargato assumendosi l’onere di garantire la stabilità di una moneta che tutti hanno voluto, Italia compresa, allora ogni giusto pensiero divergente diventa secondario e si riscopre l’unica vera arma che fa la differenza: l’identità di un popolo.
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