di Luigi Cimmino

Credo che Papa Francesco abbia due doti provvidenziali che gli riconoscono anche molti non credenti. Ha una capacità di comunicazione ecumenica, che lo avvicina a a Giovanni Paolo II, cui si aggiunge una semplicità di modi che avvince. Quando si china per salutare o abbracciare ripete e suggerisce sempre il gesto iconografico del santo da cui prende il nome. Allo stesso tempo Papa Francesco possiede il dono della percezione intellettuale del proprio tempo, che forse gli deriva anche dall’Ordine dal quale proviene. Percezione che ricorda, per me, quella del Cardinal Martini, sempre però accompagnata dai tratti sobri e spontanei di chi non esprime un giudizio, ma rinnova un imperativo antico e pieno di letizia. Non so se ha mai pronunciato esattamente le seguenti parole, ripetute più volte da Martini, ma il suo messaggio comunica spesso l’invito a non aver paura. A credenti e menocredenti dice sempre e continuamente a suo modo: non abbiate paura! Non abbiate paura che la vostra religione o i vostri dubbi siano uno dei tanti modi di far tacere il ticchettio assordante dell’orologio, uno dei modi in cui il malato grave, finché ne ha forze, cambia continuamente di posto per distrarsi dal suo intollerabile futuro. I credenti di oggi, per lo più, soprattutto occidentali, soffrono spesso della difficoltà di replicare con sicurezza, e magari cristiana dolcezza, agli argomenti della cultura – scientifica, psicologica, antropologica – contemporanea. Oppure di tacere, per ignoranza e umiltà, senza per questo vergognarsi delle loro tarlo religioso. Si sentono attaccati, accerchiati, questa la mia impressione, colpiti in un bisogno intimo che di fronte agli attacchi si fa sempre più intimo e solitario. Alla “solitudine del morente” sembra si stia sostituendo una nuova solitudine antropologica, quella del “credente”. Di chi non vede più la casa in cui vive come pareti che in futuro accoglieranno serenamente nuovi mortali, ma come pareti che hanno l’indifferenza di una casa abbandonata. Nel popolo italiano poi (al solito per lo più), con cui ora convive Papa Francesco, dotato della capacità quasi metafisica di buttare in farsa o “in vacca” le questioni più serie e radicali, se si chiede a qualcuno se “crede in Dio”, la replica è l’espressione attonita di chi viene interrogato sulle eventuali malattie ereditarie di famiglia. Da noi il serio si veste di pudore.

Ma gli esseri umani sono deboli e hanno bisogno di segni eclatanti e partecipazione. Coraggio ed entusiasmo aumentano, ahimè, quanto più sono condivisi dalla comunità; se un evento viene gridato o almeno sussurrato dalle folle. Quando ho letto le recenti lettere scritte dai Papi mi è venuto per istinto di credere che fossero state inviate, che so, da un lato a Putin e Obama, i potenti della terra, dall’altro, idealmente, ad Einstein, come a dire ad una schiera di scienziati di fama che ne seguono il percorso, ciascuno dei quali pronto a replicare sul come dovesse intendersi a suo avviso il Dio che non gioca a scacchi con l’universo. Oppure, per paradosso, a possibili rappresentanti di tutti i reietti della terra.

Invece erano state inviate rispettivamente – forse dietro suggerimento di qualcuno – a Eugenio Scalfari e a Piergiorgio Oddifreddi. Per carità, degnissime persone. Eppure mi è venuto in mente un pellegrino che, dopo giorni di faticoso viaggio, credendo di giungere al Colosseo, scelto per un summit mondiale sulla fede, si ritrovi a Rivotorto (mi scusino i suoi abitanti) per una festa paesana. Una bella festa della Repubblica – occorre riconoscerlo – con interventi pesati, rispettose ma decise prese di distanze, dignitoso reciproco riconoscimento, ecc. ecc.; anche dagli sguardi degli astanti, pubblicate sul giornale, l’impressione è che la festa sia riuscita e sia stata seguita.

Umano, troppo umano il nostro pellegrino e ciò che lo circonda. La mente è confusa e il cuore pavido: nonstante la festa, anzi a causa sua, comincia di nuovo a percepire il ticchettio inesorabile dell’orologio e il leggero vuoto allo stomaco che accompagna la paura.

 

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