di Alessandro Campi

Dici oggi “moderato” e pensi a Carlo Giovanardi: la furbizia tardodemocristiana. Se ti va bene, pensi a Mario Monti: un tecnocrate. Se ami la commedia all’italiana, ti sovviene Domenico Scilipoti: un trasformista. Ma forse converrà ricordare che nella storia italiana, dietro quest’etichetta per molti versi ambigua e sfuggente, hanno operato uomini politici del calibro di Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo o Massimo D’Azeglio. Furono loro, in età risorgimentale, gli esponenti di punta del cosiddetto “partito moderato”, che si batteva per l’unità nazionale sostenendo le riforme sociali ed economiche, la democrazia parlamentare e i diritti di libertà dei singoli. Come i moderati francesi, dopo la Rivoluzione, si era opposti alla violenza sanguinaria del giacobinismo, così i loro omologhi italiani si opposero in particolare al settarismo carbonaro-mazziniano. Ma prendere le distanze dagli eccessi, non solo verbali, dei rivoluzionari significò, in entrambi i casi, anche differenziarsi dai conservatori. Tra coloro che volevano cambiare tutto (la sinistra repubblicana) e coloro che volevano salvaguardare lo status quo (la destra monarchica), i moderati (il centro cattolico-liberale) era quelli che facevano appello ad un politica basata sulla prudenza, il realismo e la ragionevolezza, l’unica in grado di produrre trasformazioni durature.

Ma quest’accezione, che fa coincidere il moderatismo con il rifiuto del fanatismo ideologico e una modernizzazione senza traumi, per legittimare la quale si potrebbe persino scomodare Aristotele, sembra del tutto sparita dall’odierno linguaggio politico. Nemmeno se ne conosce più la storia con riferimento alle nostre vicende nazionali. Nei dizionari correnti si legge sbrigativamente che può dirsi moderato chi è “frenato, castigato, controllato, modesto”. Il termine, talvolta adoperato come un insulto nella discussione pubblica, evoca nei più la tendenza ad accettare i compromessi, ovvero a non compromettersi, sempre per ragioni di interesse personale. Suona sinonimo di debolezza, accondiscendenza, opportunismo. Oppure di qualunquismo, indifferenza, mancanza di coraggio politico e civile, di attendismo.

Già negli anni Trenta del Novecento un polemista francese, Abel Bonnard, si era esercitato nel presentare il moderatismo come una malattia dello spirito. Per lui, che era un talentuoso estremista di destra, i moderati non esprimevano una posizione politica, rappresentavano piuttosto un atteggiamento mentale segnato dalla refrattarietà e dall’incapacità a decidere; erano la zona grigia della società, nella quale si riconoscono tutti coloro che preferiscono non esporsi, tantomeno battersi per le loro idee, ammesso che ne abbiano. In questo senso – diceva Bonnard – il moderato è un tipo umano negativo che ritroviamo in ogni società e in ogni epoca.

C’è in effetti una differenza di fondo, che è anche un limite e una debolezza, tra il moderatismo e agli altri “ismi” otto-novecenteschi (dal comunismo al liberalismo, dall’anarchismo al fascismo). Ed è che esso si propone come un metodo, non come un contenuto. Il moderatismo non ha un nucleo ideologico o dottrinario, non persegue un obiettivo storico definito: il sole dell’avvenire socialista o la città degli uomini cristiana, la libertà o l’uguaglianza, lo Stato etico o lo Stato minimo. Esso indica una prassi e un atteggiamento politico che si ispirano alla prudenza, alla ragionevolezza, alla razionalità e al gradualismo. Virtù che sono proprie dell’arte del governo, che appaiono essenziali in ogni grande democrazia e che si tende ad apprezzare soprattutto nei momenti di caos istituzionale o quando ci si scontra col settarismo dei virtuosi e l’intransigenza dei moralisti.

Sarà per questo che nell’Italia degli ultimi vent’anni, attraversata da radicalismi d’ogni tipo, instabile nelle sue strutture politiche di base, c’è stata la tendenza, da parte delle principali forze politiche, a presentarsi come moderate agli occhi degli elettori. Ma con quale credibilità? E facendo leva su quale eredità politica?

Nella Prima repubblica erano moderati per eccellenza i partiti laici e i loro elettori, che non a caso si richiamavano alla memoria del Risorgimento. Il loro era anche uno stile, all’insegna della sobrietà, del senso dello Stato, della pacatezza del linguaggio, del rigore nei conti. Ma moderata, non tanto perché si contrapponeva ideologicamente al radicalismo marxista quanto per la sua capacità a tenere insieme interessi sociali spesso divergenti (dagli industriali agli agricoltori, dalla borghesia professionale urbana nel Nord al ceto medo impiegatizio meridionale) fu anche la Democrazia cristiana. Per governare l’Italia divisa degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, il gruppo dirigente democristiano più che mostrarsi intransigente sui valori dovette preoccuparsi di operare con spirito pragmatico e gradualismo, prima di restare irretito dal troppo potere gestito insieme ai suoi alleati per mezzo secolo.

Venne dunque Tangentopoli: uno scoppio di furore giustizialista legittimato agli occhi della storia da una corruzione endemica. E nacque dal nulla l’astro di Silvio Berlusconi, la cui grande capacità fu appunto quella di aggregare all’interno di un’unica casa politica, avendo nel frattempo perso quelle in cui avevano abitato per un cinquantennio, tutti quegli italiani che, per il solo fatto di contrapporsi alla sinistra o di averne timore, si potevano definire e si definivano moderati. La sua proposta iniziale fu un mix di liberalismo popolare, riformismo economico e blando cattolicesimo, ma depurato – come ha ben spiegato di recente Giovanni Orsina – dalla pretesa di rifare gli italiani o di ingabbiarli entro un progetto pedagogico.

Ma con gli anni l’anima anarchico-radicale del Cavaliere, la sua inclinazione al comando solitario, il suo populismo verbale e il suo continuo battagliare contro magistratura, comunisti e nemici d’ogni sorta hanno finito per rendere poco credibile il suo proporsi come il leader dei moderati. Che sotto la sua guida carismatica si sono nel frattempo radicalizzati sul piano del linguaggio e degli atteggiamenti, sino a dimenticare che esattamente la moderazione, vale a dire una tranquilla fermezza, la capacità di equilibrio unita alla capacità decisionale, è ciò che dovrebbe fondare il moderatismo. A meno di non confondere quest’ultimo, come vuole una caricatura alla quale spesso si sono adatti gli stessi moderati, con il parlare a voce bassa, il non fare domande scomode e il nascondersi dinnanzi ai problemi.

Oggi, con Berlusconi declinate, si riapre la discussione su chi possa dare voce e forza politica ai moderati, un tempo maggioranza silenziosa, oggi maggioranza silenziata dalla crisi economica e dalla mancanza di idee dei suoi rappresentanti. Il centro di cui oggi si parla come nuova casa dei moderati è al momento solo un luogo geometrico, un’alchimia parlamentare, senza grandi radici nella società. Manca soprattutto di un progetto ideale che dia il senso di un cammino collettivo nel segno delle riforme, della prudenza sorretta dal senso di responsabilità, di una visione del governo politico della società non subordinata agli imperativi della tecnica economica. Berlusconi fu capace di elaborarne uno, per una breve e felice stagione. Coloro che ambiscono a raccoglierne l’eredità, presentandosi come i veri moderati, come i nemici di ogni estremismo, debbono ancora dimostrare di averlo.

 

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