di Alessandro Campi
L’idea strategica di Matteo Renzi, dacché ha fatto la sua fragorosa entrata nella scena politica nazionale, è stata quella di portare la sinistra italiana – per renderla competitiva e vincente – oltre i suoi tradizionali confini elettorali. La sua polemica contro il gruppo dirigente del Pd, da “rottamare”, nasceva da un convincimento: che tale gruppo dirigente, in gran parte formatosi nei ranghi del vecchio Pci e della sinistra democristiana, non era in grado di intercettare quei milioni di italiani – d’ispirazione moderata e riformista – rimasti delusi dal Cavaliere e dunque in cerca di una nuova rappresentanza.
È sbagliato – ha sempre sostenuto il Sindaco di Firenze – confondere Berlusconi con i suoi elettori. La critica nei confronti del primo non può risolversi in un atteggiamento sprezzante nei confronti di chi lo ha votato. Una sinistra moderna e senza condizionamenti ideologici – a suo giudizio – deve essere inclusiva e in grado di parlare alle più diverse fasce sociali, ivi comprese quelle che per sensibilità e interessi potrebbero sembrare le più lontane dalla propria storia. Per fare ciò bisogna ammodernare il proprio linguaggio e non aver paura di mettere in discussione le certezze ereditate dal passato.
Su queste basi, per così dire metodologiche, Renzi ha impostato il suo scontro con Bersani nelle primarie dell’autunno 2012, attirandosi per questo l’accusa di piacere più agli elettori di centrodestra che a quelli del suo campo politico, di cavalcare temi e suggestioni che poco avevano a che fare con l’idea di sinistra che ne hanno i suoi elettori, addirittura di essere un berlusconiano mascherato.
Bersani vinse le primarie, ma come è noto ha perso (nei numeri e politicamente) le successive elezioni politiche, confermando l’assunto critico di Renzi. E cioè che la sinistra “storica” non ha voti sufficienti per governare da sola e che i consensi che le necessitano deve per forza strapparli all’avversario, spostandosi verso il centro, dove si trovano parcheggiati milioni di voti in attesa di qualcuno che sappia conquistarli con una proposta politica convincente e originale.
Siamo ora alla vigilia delle primarie che decideranno chi dovrà guidare il Pd. Renzi è nuovamente in campo, questa volta da favorito. Ma sembra esserci una differenza tra le cose che dice oggi e le sue posizioni di meno di un anno fa. Se è permesso dirlo con una battuta, Renzi sì è buttato a sinistra e ha molto radicalizzato le sue proposte e i suoi atteggiamenti.
Sono molti i segnali in questa direzione. Il Renzi di oggi non polemizza più con i sindacati, accusandoli di essere culturalmente retrogradi e socialmente conservatori, si limita a dire che dovrebbe prendere ispirazione dai loro omologhi nei Paesi scandinavi. Riguardo al Pd, sostiene che dovrebbe decidersi ad aderire dalla grande famiglia del socialismo europeo ed uscire dal limbo ideologico nel quale l’hanno lasciato i suoi fondatori. Contro Berlusconi – ad esempio sulla questione della decadenza da senatore – è stato di una durezza esemplare, smentendo chi lo voleva su posizioni più garantiste rispetto a quelle della sinistra giustizialista e radicale (contro la quale difficilmente lo sentirete oggi polemizzare). Non fa che stigmatizzare soluzioni e ipotesi politiche di stampo vagamente neo-centrista. Le sue proposte in materia economica hanno smesso da un pezzo di ispirarsi alle posizioni liberali di un Luigi Zingales o a quello liberal-riformiste di Pietro Ichino. Se il problema era ieri quello di tagliare la spesa sociale, il problema oggi è quello di redistribuirla in modo più equo. Ieri parlava di meritocrazia, oggi di uguaglianza. Dice di non considerarsi, diversamente da Letta, un politico segnato dalla sua giovanile militanza nella Dc (guai a dargli del post-democritsiano!). Ci tiene a far sapere che se fosse stato tedesco avrebbe votato per i socialdemocratici. Ha trascorso settimane a stigmatizzare la scelta del Pd di fare un governo di larghe intese con il Pdl. E si potrebbe continuare.
Naturalmente ci sono ragioni tattiche e contingenti, tutt’altro che peregrine, che spiegano questa virata a sinistra. Esse hanno a che vedere, naturalmente, con la battaglia congressuale e con la necessità di sintonizzarsi, nelle parole e negli umori, con la base militante e con la dirigenza del suo partito. Renzi si è dovuto liberare dall’immagine, per lui penalizzante, di politico dall’identità sfuggente e ambigua: un cioccolatino che ha un involucro di sinistra ma un cuore di destra, per parafrasare il perfido Crozza.
Qualcuno dei suoi antichi critici ha valutato positivamente questo cambiamento, plaudendo pubblicamente al “compagno Renzi”. Resta però da capire quanto questo nuovo profilo sia conciliabile in prospettiva con il Renzi che si era posto come ambizioso obiettivo quello di cambiare la sinistra e di parlare in modo innovativo anche agli italiani che in quest’ultima – per il fatto di essere rimasta largamente egemonizzata dagli eredi della tradizione comunista – non si sono mai riconosciuti.
Nel frattempo è successo un fatto nuovo, ancora largamente da valutare nei suoi effetti. Nel campo del centrodestra ha cominciato a profilarsi, con la rivolta di Alfano contro Berlusconi, un’alternativa al tempo stesso politica e generazionale. I delusi del berlusconismo, che sono in effetti milioni, probabilmente non saranno necessariamente costretti a rifugiarsi nell’astensione e nella protesta o a guardare ad una sinistra moderata, liberale e riformista. Che comunque sembrerebbe oggi rappresentata più da Enrico Letta che dal Sindaco di Firenze. Quest’ultimo, grazie alle nuove posizioni che sta assumendo, conquisterà certamente il Pd e il cuore dei suoi militanti, ma se il problema della sinistra, alle prossime elezioni, sarà ancora quello di conquistare nuovi elettori per provare a vincere e a governare l’Italia in autonomia, il “compagno Renzi” rischia di non essere più l’uomo giusto per realizzare una simile impresa.
* Articolo apparso sul “Messaggero” di Roma del 7 ottobre 2013.
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