di Alessandro Campi

Ci sono molte buone ragioni – d’ordine sociale e tecnico-giuridico – per essere contrari ad un provvedimento di indulto e amnistia da adottare, a distanza di appena sette anni dall’ultimo votato dal Parlamento (era il 2006), col precipuo obiettivo di affrontare il sovraffollamento carcerario. Ma c’è una motivazione d’ordine etico-politico che lo rende invece ineluttabile e necessario. Le polemiche politiche di questi giorni – tra partiti e all’interno di essi – tendono a soffermarsi sulle prime, spesso in modo propagandistico e strumentale, ma dovranno fatalmente arrendersi alla seconda.

La principale obiezione d’ordine generale è che indulti e amnistie – specie se adottati a intervalli regolari – finiscono per far collassare il sistema penale di un Paese, per creare pericolosi contraccolpi alla sua convivenza collettiva e per togliere ogni autorevolezza allo Stato e alle sue strutture istituzionali.

Si viene privati della libertà, quando si commette un reato, per un insieme di motivi: per offrire un risarcimento, al tempo stesso materiale e simbolico, alla società le cui norme di condotta, così come fissate dal suo ordinamento legale, sono state violate, mettendone in pericolo la stabilità e il funzionamento; per creare un effetto deterrente e dissuasivo nei confronti di chiunque intenda operare fuori dal perimetro della legalità; per definire un percorso riabilitativo-educativo che consenta a chi ha sbagliato di reinserirsi nella vita civile una volta che abbia pagato il suo debito con la giustizia.

Questo complesso meccanismo, che regola il funzionamento di qualunque società minimamente organizzata, rischia di saltare se chi delinque – quale che sia la ragione che lo spinge ad agire contra legem – matura il convincimento di potersi sottrarre alle sue colpe grazie ad un sistema sanzionatorio che periodicamente ricorre a misure di clemenza generalizzata: un atto eccezionale che nel caso dell’Italia si sta invece trasformando in regola o abitudine. Tanto più deleteria se si considera la facilità con cui – grazie ad un sistema giudiziario al tempo stesso farraginoso e generoso – è possibile sottrarsi alla pena per un numero ormai crescente di reati.

Questa percezione – abbinata al venire meno dell’effetto insieme risarcitorio deterrente e rieducativo che la pena dovrebbe avere – non può che diffondere un senso di impunità tra chi delinque abitualmente o è tentato dal farlo (che diventa senso di insicurezza tra i cittadini perbene) destinato a favorire il diffondersi di comportamenti e atti illegali. Ha dunque ragione chi sostiene – da Grillo a Renzi, da destra e da sinistra – che un’ennesimo atto di clemenza servirà magari a svuotare le carceri (momentaneamente), ma rischia di apparire con un segnale di cedimento da parte di uno Stato che semplicemente non è più in grado di fare pagare le proprie colpe a chi infrange la legge deliberatamente.

Ma come accennato c’è un’obiezione d’ordine etico-politico dinnanzi alla quale tutti questi argomenti si annullano e perdono d’importanza. Un’obiezione assai semplice ma invalicabile, con la quale non si può non fare i conti. La condizione dei detenuti nelle carceri italiane – sono attualmente 65.000 a fronte di una capienza “regolamentare” di 45.000 – ha raggiunto un livello che è letteralmente i-n-s-o-s-t-e-n-i-b-i-l-e. Non è solo un problema generico di sovraffollamento e dunque di numeri. La vera questione, come è stato dimostrato da inchieste giornalistiche e rapporti ufficiali, è il degrado umano che ne discende e nel quale sono costrette a vivere migliaia di persone. Essere detenuti comporta il pagamento di un prezzo già assai alto: la privazione della propria libertà individuale. Non può assolutamente implicare, come accade attualmente in Italia, l’umiliazione della persona e l’annullamento dei suoi più elementari diritti civili. C’è una soglia minima di civiltà e decoro che l’ordinamento penitenziario italiano non è più in grado di rispettare. In certe situazioni – come ha detto l’Europa (ma basterebbe a qualunque cittadino italiano farsi un giro di qualche ora in qualche grande penitenziario) – siamo alle soglie della tortura e della barbarie. E a questa situazione, piaccia o meno, bisogna porre rimedio in tempi brevi. Non solo perché ce lo chiedono da Bruxelles, ma per una elementare questione di pubblica decenza.

Ciò significa – ed è questo il senso autentico del messaggio alla Camere del presidente Napolitano, che purtroppo è stato piegato a stucchevoli polemiche circa la possibilità che esso sia stato concepito per fare un favore a Berluscon i – che la classe politica di questo Paese (quel che rimane) deve assumersi le proprie responsabilità e deve farlo dinnanzi al Paese, invece di cavalcare, sul filo di una facile demagogia, i cattivi umori popolari.

A nessuno può piacere che si aprano le porte delle celle, solo perché troppo stipate, e che dei delinquenti vengano messi in libertà, col rischio – peraltro empiricamente attestato da diverse ricerche – che tornino a commettere reati. Ma bisognava pensarci prima. Sei anni fa, ad esempio. Quanti sono i ministri di grazia e giustizia che dall’ultimo indulto ad oggi hanno annunciato come imminente una riforma del nostro sistema carcerario? Quante volte sono stati presentati, cifre alla mano, piani di edilizia carceraria che sono fatalmente rimasti sulla carta? Tutti gli stanziamenti destinati dai diversi governi alla costruzione di nuovi penitenziari e/o alla ristrutturazione di quelli esistenti (alcuni dei quali versano in condizioni di vera fatiscenza) sono stati ogni volta revocati o dirottati verso interventi ritenuti più urgenti e necessari. Ci saranno state buone ragioni per farlo, ma con chi prendersela oggi se la capienza delle nostre carceri è rimasta praticamente invariata rispetto al passato? Con chi prendersela se, come sempre il Capo dello Stato ha spiegato, non si è riusciti in tutti questi anni a stabilire un sistema sanzionatorio basato su misure alternative alla detenzione in carcere, su un ricorso più razionale allo strumento della custodia cautelare, su accordi internazionali che consentano ai detenuti stranieri di scontare le pene nei Paesi d’origine, su efficaci forme di reinserimento sociale per chi lascia il carcere (in mancanza delle quali è quasi fatale tornare a delinquere)?

Ha ragione chi sostiene che non è con gli indulti e le amnistie che si può sperare di riformare il sistema carcerario. Ma dinnanzi al degrado che tutti lamentano e riconoscono occorre una decisione immediata, sperando che quest’emergenza carceraria sia l’ultima e che venga, prima o poi, il tempo delle riforme.

* Apparso su “Il Messaggero! (Roma) e “Il Mattino” (Napoli) del 14 ottobre 2013.

 

 

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)