di Alessandro Campi

Ieri sono arrivate due perentorie smentite destinate a rendere la discussione sul futuro del Pdl ancora più aggrovigliata e piena d’incognite. Marina Berlusconi ha dichiarato, a dispetto delle voci che circolano da mesi, che non ha alcuna intenzione di lasciare le aziende che governa per gettarsi nell’agone politico al posto del padre. Angelino Alfano ha invece fatto sapere che, contrariamente a quanto ipotizzato da parecchi osservatori, non ci sarà alcuna scissione nel Pdl (tornato ad essere Forza Italia) e che dal suo punto di vista il capo di quel partito è e rimane Silvio Berlusconi.

Le smentite in politica, si sa, spesso obbediscono ad una logica strumentalmente perversa: si nega ciò che in realtà si vuole affermare. Ma per non perdersi nell’oceano delle supposizioni, dei retroscena e delle congetture, che sono la regola nel dibattito politico-giornalistico nazionale, le smentite talvolta bisogna prenderle sul serio e alla lettera; e immaginare che il loro contenuto risponda esattamente al pensiero e alla volontà di chi le ha pronunciate.

Marina dunque non si candiderà. E Alfano non romperà con la casa madre. Lasciamo da parte la prima (per questa volta) e occupiamoci del secondo. Come debbono essere interpretate le sue parole alla luce di quel che è accaduto dal 2 ottobre (quando il Cavaliere fu costretto a votare la fiducia al governo Letta proprio dalla rivolta parlamentare guidata dal suo delfino) ad oggi? Si tratta di un mesto ritorno all’ovile, della perdita del quid appena dopo averlo trovato o di una scelta tattica dettata da un serio calcolo politico?

Nell’atteggiamento tenuto da Alfano nei confronti del Cavaliere agiscono, come spesso si è detto, complicate variabili personali e affettive. Il che rende la sua posizione assai particolare rispetto a quella, ad esempio, di un Lupi o di un Quagliariello, uniti al loro leader in prevalenza da ragioni politiche. Il legame tra i due parrebbe essere quello tra un padre autoritario e invadente e un figlio educato che vorrebbe, giunto ormai alla maggiore età, liberarsi dal suo controllo, ma frenato nel suo impulso di indipendenza più dal rispetto che dall’amore, oltre che da un carattere tentennante e insicuro, sebbene ambizioso.

Alfano usa notoriamente il lei quando si rivolge a Berlusconi, che in cambio gli ha sempre riservato, in pubblico come in privato, parole di grande lode e gesti affettuosi. Il che, in un universo politico che funziona come una corte rinascimentale, basta a giustificare le antipatie che gli riservano i berlusconiani che più di altri inclinano all’ortodossia e all’adulazione. Tra i tanti a cui, nel corso del tempo, ha promesso lo scettro del comando, Alfano è in effetti l’unico a cui il Cavaliere abbia realmente concesso qualcosa: l’investitura a segretario del Pdl, ottenuta nel luglio 2011 per acclamazione. Questo spiega la sua tendenza ad anteporre la gratitudine personale a qualunque valutazione d’ordine politico. Se è vero che tutti debbono molto a Berlusconi, Alfano probabilmente gli deve tutto, o comunque più di altri; e questo spiega il suo atteggiamento al tempo stesso deferente e riconoscente, che sembra rendere impossibile un suo distacco traumatico o polemico dal Cavaliere. Il massimo che è riuscito a dire, nei giorni del massimo scontro, è stato che si considera un “diversamente berlusconiano”: definizione che in effetti non suona come particolarmente corrosiva.

Ciò non toglie che lo strappo tra i due ci sia stato; e che abbia avuto un significato politico, destinato ad incidere sul futuro del partito berlusconiano e del centrodestra in generale. Il fatto che lo strappo non sia destinato a trasformarsi in secessione o dissidenza aperta, stando alla dichiarazione di ieri, dipende a questo punto da valutazioni di convenienza basate su un insieme di fattori. Alfano ritiene evidentemente che rompere ora potrebbe rivelarsi un errore fatale, anche alla luce di quel che è stata l’esperienza di Gianfranco Fini. La scelta dei tempi è decisiva in politica, specie se bisogna misurarsi con uomo che ha la sveltezza e la reattività del Cavaliere, e che troppe volte è stato dato come perdente o definitivamente alle corde.

Una rottura oggi, con Berlusconi alle prese con una difficile congiuntura umana e politica, lo esporrebbe inoltre all’accusa motivata di tradimento e ingratitudine: il problema non è, come si dice, il rischio di venire accarezzati dal “metodo Boffo”, ma di rompere il legame fiduciario con il proprio elettorato di riferimento, che nei confronti del Cavaliere continua a nutrice affetto e devozione; e che non perdonerebbe una rottura che apparirebbe dettata dalla “cupidigia del dominare”. Quest’ultima è un’espressione di Machiavelli, tratta dal capitolo sulle congiure nei Discorsi, dove si legge anche, parlando dei fallimenti cui vanno incontro le macchinazioni contro il principe ispirate dalla brama di potere dei suoi fedeli: “Ed ebbono le loro congiure tutto quel fine che meritava la loro ingratitudine”. Un monito che Alfano fa bene a tenere presente.

C’è poi da considerare, nel caso di una scissione, l’aleatorietà che avrebbe un nuovo partito di centro, ancorché nato sotto le insegne del popolarismo europeo. In questo caso agisce come deterrente l’infelice esperienza di Monti. In un sistema tendenzialmente bipolare da vent’anni, divenuto tripolare alle ultime elezioni con l’emergere del fenomeno Grillo, si è visto quanto sia ridotto lo spazio per una forza posizionata al centro e che basi per di più il proprio profilo progettuale solo sulla “moderazione”.

Meglio dunque aspettare. Meglio condurre la propria battaglia, sinché possibile, all’interno del partito e non contro di esso. Meglio non dare l’impressone di fare il gioco del Pd, che a furia di chiedere ad Alfano un gesto risolutore lo ha spinto a fare l’unica cosa che al momento gli conviene: restare al fianco del Cavaliere in attesa del momento opportuno.

* Apparso su “Il Mattino” del  29 ottobre 2013.

 

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