di Tommaso Milani
A sei mesi dall’insediamento del Governo Letta, i tempi sono forse maturi per abbozzare un’analisi ad ampio spettro dell’esperienza ormai nota, nel linguaggio corrente, come “larghe intese”. L’obiettivo non è tracciare bilanci, né disquisire astrattamente sulla desiderabilità di alleanze post-elettorali tra forze rivali, bensì comprendere: 1) se è ragionevole attendersi che la grande coalizione fra PD, PdL e forze di centro si protragga anche dopo le prossime consultazioni politiche; 2) se sì, attorno a quale agenda programmatica; 3) se sono immaginabili scenari alternativi in cui PD e PdL non siano costretti a governare assieme.
Per dirimere tali interrogativi ci baseremo sul passato recente, pur consapevoli che proiettare nel futuro tendenze oggi in atto potrebbe costituire un errore. “Larghe intese”, dopotutto, è un’espressione neutra: se, in che misura e su quali temi i partiti di maggioranza ‘si intenderanno’ dipenderà da vari fattori difficilmente ponderabili. Al tempo stesso, l’ultimo semestre (preceduto da un’altra parentesi anomala, quella del gabinetto guidato da Mario Monti) ci offre materiale sufficiente per tentare di distinguere quanto è contingente da quanto non lo è, individuando alcune costanti che potrebbero caratterizzare, un domani, analoghi esperimenti.
Punto primo: il protrarsi della convergenza PD-PdL presuppone anzitutto l’esistenza di un forte competitor antisistema come il M5S. PD e PdL, pur dissentendo su questioni cruciali, hanno raggiunto un accordo in parte perché accomunati da interessi sistemici, in parte perché convinti che all’Italia convenga disporre di un Esecutivo che goda della fiducia delle Camere. Al contrario il movimento di Grillo, mirando a monopolizzare il voto di protesta, non sembra intenzionato a uscire dal proprio isolamento. Esso, peraltro, ha dimostrato notevole compattezza a livello parlamentare, il che fa pensare che, qualora le procedure di selezione dei candidati non cambino, il numero di fuoriusciti disposti a partecipare a grandi coalizioni continuerà a essere esiguo.
L’esistenza di una robusta opposizione, intransigente e disciplinata, non disposta a farsi carico della governabilità, costituisce dunque un fondamentale presupposto alla prosecuzione delle larghe intese. Non è però l’unico: devono verificarsi, infatti, altre tre condizioni. In primis, che centrodestra e centrosinistra rimangano deboli. Il Governo Monti nacque dal liquefarsi del primo, falcidiato da scissioni e defezioni; il Governo Letta è diretta conseguenza della catastrofica performance elettorale del secondo, ridotto al minimo storico dal 1994 a oggi. Fintantoché PD e PdL saranno in condizione di conquistare la Camera ma non il Senato, la loro collaborazione risulterà inevitabile. Secondariamente, occorre che non muti la legge elettorale, o, più precisamente, che non venga introdotta una formula maggioritaria, magari a doppio turno. Una forte affermazione al primo turno, infatti, potrebbe generare un effetto trascinamento tale da permettere al centrosinistra o al centrodestra la conquista di entrambi i rami del Parlamento. Ciò potrebbe avvantaggiare il PD, che in passato ha mostrato una maggiore capacità di mobilitare il proprio elettorato (si vedano, ad esempio, gli esiti dei ballottaggi alle Amministrative degli ultimi dieci anni). Da ultimo, è indispensabile che permanga una propensione all’accordo fra leader, ossia che i ‘falchi’ non prendano il sopravvento in uno dei due schieramenti. Per la verità, nemmeno quanti periodicamente invocano elezioni anticipate o vagheggiano maggioranze alternative, come gli onorevoli Brunetta o Civati, sembrano realmente escludere a priori un rinnovo dell’alleanza PD-PdL. Al netto delle esibizioni muscolari, è difficile pensare che le frange estreme (o presunte tali) accettino a cuor leggero di paralizzare il quadro politico.
Punto secondo: i contenuti di future larghe intese saranno determinati dai rapporti di forza, dall’abilità del partito maggioritario alla Camera nell’esercitare il potere d’agenda, dalla composizione della compagine ministeriale e dalla situazione complessiva in cui verserà il Paese. Per esempio, è lecito pensare che se fosse stato il PdL a prevalere a febbraio l’IMU sarebbe stata soppressa più celermente. Al tempo stesso va ricordato che, a causa della difficile congiuntura economica e dei vincoli comunitari cui il Paese è soggetto, i margini di autonomia nella gestione della politica economica sono ristretti. Ciò limita le opzioni sul tavolo, abbassando le pretese dei partiti e favorendone la collaborazione. Un discorso a parte merita il capitolo riforme. In termini generali, non pare realistico ritenere che la coabitazione PD-PdL possa partire misure organiche e ad ampio raggio come quelle elaborate da esecutivi tecnici. Questa difficoltà è in parte riconducibile ai configgenti interessi rappresentati da centrosinistra e centrodestra, in parte alla sudditanza dei medesimi verso le associazioni di categoria che li tutelano. Il tentativo di bilanciare le pulsioni immobiliste mediante la creazione di un polo riformatore, compiuto da Mario Monti, non ha avuto successo. È dunque plausibile che future grandi coalizioni si dedichino a un’opera di manutenzione della contabilità pubblica, contraddistinta dal rispetto dei parametri europei, dal più frequente ricorso all’aumento delle imposte (meglio se spalmate su settori trasversali della popolazione) che ai tagli di spesa, dal mantenimento – per quanto possibile – dello status quo onde evitare di compromettere i precari equilibri interni alla maggioranza.
Punto terzo: sono sostanzialmente tre gli scenari futuribili che decreterebbero la fine delle larghe intese. Il primo vedrebbe l’implosione di PD, PdL e altre forze, seguita da un rimescolamento da cui scaturirebbe un nuovo soggetto centrista in cui confluirebbero cattolici del PD, settori del PdL vicini ad Alfano e altri esponenti del variegato universo post-democristiano. Si tratta di un’operazione di difficile agibilità, ad alto rischio d’insuccesso e, pertanto, d’improbabile realizzazione. Più verosimile sarebbe una larga vittoria del PD guidato da Renzi, la cui popolarità al momento si estende molto oltre i confini del tradizionale bacino post-comunista. Se l’ascesa del sindaco di Firenze si accompagnasse a un disgregamento di PdL e Lega, magari facilitato dalle vicissitudini giudiziarie di Berlusconi, e da un esaurimento della spinta propulsiva grillina, ad esempio in virtù di un allentamento della recessione, i democratici potrebbero ambire anche al controllo della Camera alta, spingendo il centrodestra – o quel che ne rimarrebbe – all’opposizione. I contorti criteri di assegnazione dei seggi fissati dal ‘Porcellum’, tuttavia, costringerebbero Renzi a conquistare, oltre alle cosiddette regioni rosse, vaste aree del Nord e quantomeno due/tre fra le principali regioni del Sud: missione non infattibile, ma certo improba. Va segnalato, infine, uno scenario apparentemente remoto: M5S maggioritario alla Camera, PD o PdL costretti a negoziare un appoggio al Senato. Chi fosse incline a liquidare questa possibilità come assurda dovrebbe tenere a mente alcuni punti. In primo luogo, il Governo Letta sta tergiversando su temi cari all’elettorato grillino, a cominciare dalla riduzione del numero dei Parlamentari e dal taglio delle loro retribuzioni. Se provvedimenti energici e/o ad alto impatto mediatico non fossero varati prima delle prossime elezioni, un messaggio anticasta potrebbe fare facilmente breccia fra delusi e astenuti. Secondo, non è dato sapere in quale contesto socio-economico gli italiani saranno chiamati ad esprimersi. Il protrarsi di un elevato tasso di disoccupazione, una crescita assente o anemica e l’erosione del potere d’acquisto di salari e pensioni alimenterebbero il voto antisistema. Terzo, non vanno dimenticate le doti istrioniche di Grillo, che, in una contesa serrata, possono fare la differenza. Nulla vieta, infatti, che le prossime consultazioni si decidano sul filo. Basti pensare che, alle passate politiche, se appena altri cinque votanti ogni cento avessero barrato il simbolo pentastellato anziché uno diverso presente sulla scheda, Grillo avrebbe strappato la Camera a Bersani e avuto in mano il destino della legislatura.
È bene ricapitolare le conclusioni cui siamo giunti. Le larghe intese costituiscono, oggi, il solo assetto in grado di assicurare stabilità e governabilità al Paese. I suoi pilastri sono: l’esistenza di una potente forza antisistema; la debolezza dei due principali partiti che le praticano; una legge elettorale che rende frammentata la composizione del Senato; il prevalere di atteggiamenti cooperativi all’interno di PD e PdL. Tale schema tende a produrre una politica economica scarsamente innovativa, improntata alla difesa dell’esistente e alla tenuta dei saldi di finanza pubblica, procrastinando o escludendo interventi più ambiziosi e strutturali. È ragionevole ritenere, infine, che PD e PdL dovranno farvi ricorso anche in futuro, salvo che non abbia luogo uno dei seguenti eventi: la nascita di una nuova, ampia aggregazione centrista; una netta affermazione elettorale del PdL o – più probabilmente – del PD renziano che ne garantisca l’autosufficienza; un successo, quantomeno alla Camera, del Movimento Cinque Stelle.
Ma da ciò segue un’ulteriore considerazione, forse la più importante: la decisione, in ultima istanza, spetterà agli elettori. Le larghe intese, per consolidarsi, dovranno apparire non solo inevitabili ma anche utili, persuadendo i cittadini della loro funzionalità e idoneità a risolvere questioni concrete. Se, al contrario, esse saranno percepite come una convivenza innaturale e forzosa, contrassegnata da un elevato tasso di litigiosità e dalla tendenza a eludere scelte coraggiose, è molto probabile che gli italiani, nelle urne, si esprimano in modo tale da rendere impraticabile la prosecuzione di questa esperienza.
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